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  • Movimento umanistico e relazione d'aiuto: verso una sensibilità collettiva
    Cecilia Edelstein (a cura di)

    M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017





    CON LE GALOCHES, BASAGLIA E DON MILANI, A SPASSO PER LA VIA LATTEA: COOPERAZIONE EDUCATIVA, PEDAGOGIA DEL CIELO E POLITICA DELL’ESPERIENZA

    Anna Barracco

    anna@annabarracco.it
    Psicoanalista, già presidente del CIPRA – Coordinamento Italiano Professionisti della Relazione di Aiuto e attuale membro del direttivo, è stata Consigliere segretario dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia dal 1999 al 2014.


    Carte 2012 /14 (n° 7) - Nicoletta Freti

    Uno sguardo alla volta celeste, con i piedi piantati per terra.

     

    Mi fa piacere condividere con i lettori di Magma la mia esperienza di allieva al corso sulla pedagogia del Cielo, esperienza che ho fatto dal 21 al 23 aprile 2017, a Gubbio, grazie al Movimento di Cooperazione Educativa. Questa straordinaria realtà associativa, nasce da un’idea di pedagogia molto “basagliana”, secondo me, anche se loro certamente non si occupano direttamente di disagio mentale, né di manicomi, né di matti, ma di bambini.

     

    D’altronde, sento dire spesso che per crescere un bimbo, ci vuole un intero villaggio (sembra sia un detto africano), ma si dice anche (un modo di dire che divenne popolare, negli anni del movimento antipsichiatrico) che dietro ogni scemo c’è un villaggio.

     

    Guai se si perde di vista che la democrazia ha a che vedere con un’idea di società, e quindi è subito necessario pensare ai bambini, e pensare ai deboli. Una società è democratica tanto più (o tanto meno), si occupa – e non tanto, e non solo si preoccupa – dei bambini, dei matti, e io dico anche delle donne.

     

    Non voglio neanche mettere le donne su questo continuum di debilità o fragilità (certo il bambino non ha ancora la capacità giuridica), ma è un dato di fatto che la conquista dei diritti delle donne è stato un cammino lungo e difficile, e ancora oggi vediamo che il percorso presenta elementi di criticità anche simbolica. Siamo partite da questo essere associate ai bambini, nel senso di essere state “sotto tutela”. Cosa che non ha sempre coinciso con l’essere effettivamente tenute in considerazione. E dunque, anche qui, torna in mente il disagio mentale e la fragilità, laddove la “cura” non ha affatto coinciso con un prendersi cura, ma spesso con forme di oppressione se non proprio di violenza. Questo discorso, quindi, della “cura” che si muta in sopruso, è quello che vorrei tener presente, e che credo accomuni la nostra esperienza di operatori della relazione d’aiuto, come soggetti politici, senza troppi giri di parole e senza troppi complimenti.

     

    La donna, dunque, e magari anche l’immagine simbolica, astratta, del folle, come immagine dell’ “altro da sé”, come immagine della pura differenza, dell’alterità.

     

    Questo vorrei mettere al centro del discorso e, con questo, forse, spiegare anche perché ho accolto l’invito che un collega molto bravo, che si occupa di adolescenti affetti da gravi disturbi psichiatrici, mi faceva da anni, che era appunto l’invito a partecipare a uno dei seminari residenziali organizzati dal Centro di Cooperazione Educativa, di cui egli è socio fondatore.

     

    Loro si occupano di bambini, dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola secondaria di primo grado, per cui la questione è il binomio infanzia-istruzione.

     

    La matrice culturale di questo approccio è quella della scuola di Barbiana e dunque dietro ai seminari di pedagogia del Cielo, pedagogia per gli adulti, c’è un’idea di acquisizione di sapere che è un’idea politica.

     

    Sono pochi i colleghi della mia età, per non parlare di quelli più giovani di me di 10 o anche 20 anni, che conoscono il libro «Lettera ad una professoressa» (Don Lorenzo Milani, 1996). Questo libro è stato per me una folgorazione e per molti di noi, che oggi navigano attorno ai 60 anni, è stato come una botta in testa dalla quale non ci siamo mai più ripresi.

     

    Niente poteva essere più come prima, dopo aver letto questo libretto, che come un coltello affilato entrava nella carne delle nostre false coscienze e ci mostrava e ci mostra, ancora oggi con inesorabile chiarezza, cosa c’è dietro all’emarginazione, al drop out, alla dispersione scolastica. Nuove parole per esperienze molto, molto antiche. Ancora oggi, quando forse non solo Don Milani, ma persino Marx, Foucault, Goffmann e lo stesso Basaglia sono nomi per lo più sconosciuti agli studenti di psicologia, leggendo queste pagine straordinarie, non possiamo non renderci conto che la scuola è un’istituzione che forse più ancora delle istituzioni di cura, è la fabbrica che costruisce la società del futuro.

     

    Gli animali non vanno a scuola. La necessità di trasmettere il sapere, di strutturare luoghi, riti anche, in cui passare il testimone alle generazioni future, è uno degli snodi etici del consorzio umano.

     

    Fare scuola come la faceva Don Milani, prendendo gli ultimi, mettendoli attorno ad un tavolo di legno, mettendo a fare da insegnante il più somaro e pluri-respinto, dentro alle campagne e con i capelli che ancora risentono dell’odore della stalla, è una scelta.

     

    Una scelta non molto diversa rispetto a quella fatta dal Movimento di Cooperazione Educativa, che parte invece dalla volta celeste e dallo studio dell’Astronomia. Qui lo sguardo si eleva, come Don Milani osava fare, con questi bambini. Ma la puzza di stalla oggi, ce la mettiamo noi, e il peggio è che non ne siamo consapevoli.

     

    Quando Luca mi ha fatto questo invito, e quell’anno il seminario di pedagogia del Cielo si svolgeva in Sicilia, pochi mesi dopo che si era verificata la strage dei profughi annegati nelle acque del nostro mar Mediterraneo, presso Lampedusa, avevo pensato già: “Quante volte io alzo gli occhi al Cielo? Quanto tempo è che non vedo le stelle, non guardo le stelle? Quante costellazioni sono in grado di riconoscere?”. Vivo a Milano, e con ciò ho detto tutto, o se non tutto, molto.

     

    In ogni caso, quell’anno non potei andare, e l’ho fatto adesso. Il corso si svolgeva a Gubbio, quest’anno, terra che pure è stata martoriata e ferita non dai naufragi, ma dai terremoti. Eventi naturali, certamente, come “naturale” può essere forse nascere figli di un alto borghese, di un re, o di un operaio o di un contadino della Bergamasca.

     

    Naturale è il terremoto, non le morti e gli affanni che, troppo spesso, in Italia, i Terremoti portano con sé.

     

    Sono stata dunque a questo seminario di pedagogia del Cielo, dove l'obiettivo era di imparare a guardare le stelle. Sembra poco, ma in realtà potrebbe essere l'unica cosa che ogni uomo si ripromette nella sua vita.

     

    Intanto, ci si rivolge al cielo. Gli occhi dell'uomo possono levarsi alla volta celeste. E' uno dei pochi, se non l'unico animale, che può fare questo: l'uomo. Gli uomini, dunque, possono guardare il Cielo, sanno di dover morire e devono creare delle scuole, perché il sapere necessario per stare al mondo, per i cuccioli dell’uomo, non è già tutto contenuto nella biologia.

     

    Il Cielo, dal punto di vista della pedagogia umanistica di questi docenti, è uno "sfondo integratore". Con questo intendono che l'argomento del cielo, con quel che si porta dietro (astronomia, mitologia, chimica, geografia, scienze, arte, musica, religione...) potrebbe essere un tema su cui costruire la didattica di un anno, ma anche di un intero ciclo.

     

    Io dico che il Cielo è uno sfondo integratore anche a livello più profondo. Tutti noi ci stagliamo su uno sfondo, e questo sfondo alla fine è il cielo, inteso anche come contesto, in gran parte misterioso, su cui noi ritagliamo la nostra figura, la nostra breve traiettoria esistenziale. Ma non basta. Il progetto di pedagogia del cielo prevede che si metta al centro l'esperienza vera, diretta, concreta, di chi guarda, di chi apprende. E ancora: docente e discente condividono lo spirito di ricerca, sanno di non sapere.

     

    Sembra tutto piuttosto astratto, ma io posso assicurare che ho fatto un'esperienza molto concreta, stupefacente. Sono arrivata il venerdì pomeriggio e, subito, in una terrazza invasa da un sole freddo e da un vento pungente, mi sono ritrovata in un gruppo, con forbici, colla, cartoncini colorati, corda, righelli, goniometri, tutto quello che si usava a scuola, e anche molto di più, dato che molte cose cinquant’anni fa forse non c'erano nemmeno.

     

    Mi è stato detto piuttosto velocemente e senza tante cerimonie, che dovevo costruirmi un quaderno e poi mettere insieme un astrolabio. Mi sono guardata intorno. C’erano docenti universitari e maestre di scuola elementare e media (oggi si chiamano primarie e secondarie di primo grado), per lo più. Eppure tutti eravamo lì come se fossimo bambini, scolari. Ho subito preso contatto con tutti quei ricordi di me scolara, quelle paure, quelle insicurezze che avevano accompagnato le mie esperienze scolastiche, con particolare riferimento a quelle pratiche, ginnastica e applicazioni tecniche, per l'appunto.

     

    Quel bambino o bambina vergognosa, frustrata, ferita, che è dentro ognuno di noi, si è subito fatta sentire. Io costruire un quaderno? E come? Nessuno mi diceva nulla. Mi guardavo intorno, sapevo che molti di quelli erano professori, e questo accresceva la mia inquietudine.

     

    Perché costruire un quaderno se avremmo potuto procurarcelo con poco denaro, mentre invece ci avevano fatto portare righelli, cartoncini colorati, forbice, spago e non so più quali altre diavolerie, dall’odore inconfondibile di scuola elementare, di nota sul registro, di compito impossibile?

     

    Mi sono resa conto in pochi minuti che dentro di me, oltre alla bambina di allora, c'era l'adulta che aveva imparato a sorridere e a non prendere troppo sul serio quelle angosce.

     

    Così, mi sono seduta accanto a un’insegnante di Velletri, con cui avevo fatto parte del viaggio e, parlando dei suoi allievi, ho potuto prendere contatto con la "me" bambina che era anche capace di appoggiarsi e chiedere aiuto. La “me” bambina che anche, se possibile, mi sta più antipatica di quella ferita e vergognosa. La bambina “secchiona”, che cerca l’approvazione e l’appoggio dell’adulto.  

     

    Dopo un po' non so come, avevo calcolato i buchi, messo le corde, assemblato le pagine. Avevo perso le forbici, qualcuno me le aveva fregate. In compenso, avevo preso in prestito diverse cose che non possedevo, come la colla, i fogli trasparenti e altri ammennicoli. Il quaderno reggeva, e persino l'astrolabio lo avevo realizzato. Cosa fosse veramente un astrolabio, lo confesso, io non lo sapevo. Ho capito poi che in realtà non importava a nessuno come il quaderno fosse costruito. A differenza di quello che ricordavo della scuola elementare, qui davvero non c'era uno standard. Mi sono detta, o meglio convinta, che uno dei fondamenti del metodo è mettere i "corsisti" esattamente nella posizione degli allievi, cioè dei bambini di cui loro si occupano, come insegnanti. La filosofia è "se lo proponi a loro, vedi di sperimentarlo". O anche "se non interessa a te, non può interessare a loro".

     

    Sono decisamente riusciti a farci sentire allievi, anche perché loro stessi si sono messi in questa posizione. Non c’era nessuno che ti diceva cosa dovevi fare e come dovevi farlo. C’era ogni tanto qualche dritta, se la chiedevi. Nessuno ti stressava con tempistiche, ma nessuno nemmeno veniva in soccorso. C’era una fiducia nel tuo “saper fare”.

     

    Ho pensato che noi professionisti della relazione d’aiuto, noi che lavoriamo nei centri di salute mentale, dovremmo avere il coraggio, la temerarietà di metterci nella stessa posizione.

     

    “Se non interessa a te, non può interessare loro”.

     

    Chi di noi passerebbe anche una sola settimana in una Comunità a media o ad alta protezione, nei panni dei nostri “utenti”? A fumare, a ciondolare nei corridoi (anche senza pretendere di prendere i farmaci, magari solo un paio di bicchieri di vodka per stordirci), a guardare una televisione sempre accesa sul nulla?

     

    Mi sono venuti i brividi.

     

    Man mano che i giorni si sono dipanati, mi sono resa conto che per quelli della Cooperazione educativa, questo principio è davvero incarnato. Se lo proponi ai bambini, deve essere interessante anche per te. Devi ricercare insieme a loro, imparare insieme a loro. È questa modalità che costituisce già il fondamento di tenere gli occhi fissi alla volta celeste, di non aver quindi paura di scrutare il mistero, l’immensità, e di farlo con i bambini. Credendo nel fatto che loro possano essere ricercatori.

     

    Prima cosa, dunque, ci hanno insegnato a scrutare l’orizzonte. Quest’ultimo è la prima cosa, è il punto di capitone, di appoggio di uno studio astronomico. L'orizzonte è il punto di congiunzione fra cielo e terra. Ce l’hanno fatto segnare col dito, tutto il contorno di 360 gradi (un panorama meraviglioso, dal monte Igino) e poi inquadrare con un cerchio delle dita, e poi con una sorta di cannocchiale realizzato con le due mani. Lo abbiamo poi disegnato, ognuno un pezzo, e poi lo abbiamo messo insieme con varie tecniche, vari linguaggi. Ogni pezzo del disegno era utile per l'insieme. Gli stili e le abilità erano diverse, ma la linea dell'orizzonte, il punto di contatto fra cielo e terra, veniva poi congiunto e faceva da connettivo.

     

    Su questo non posso dilungarmi, ma il senso era riproporci l'esperienza dei primitivi: guardare ciò che avevamo davanti e provare a documentarlo. Farci i nostri punti di riferimento e inserire poi il sole, così come lo vedevamo. Da lì, i punti cardinali e i primi ragionamenti, a partire proprio dal sole e dal suo tramonto. Vedere, seguire con il dito, disegnare, ognuno come poteva e come sapeva, poi congiungere i fogli, e così la linea dell’orizzonte si ricomponeva, ricostituendo lo spazio, il confine entro cui eravamo immersi e anche ciò che ci teneva insieme. Ciò che la nostra esperienza ci diceva, lo sguardo, era assai poco galileiano e molto medievale. Bene così. Ognuno ha sperimentato quanto ci portiamo dietro di conoscenze date per scontate.

     

    A cena, ognuno aveva portato qualcosa di suo, della sua terra, della sua città. Cibi meravigliosi. Purtroppo non ho molto tempo per parlare, per ricostruire la storia di tutti quei cibi, ma il senso era comunque costruire un legame a partire da ciò che ognuno era, dalle coordinate “naturali”, territoriali, che ci avevano visti nascere o semplicemente vivere. Non sempre nascere e vivere si sovrappongono, come possibilità.

     

    La sera, con un freddo polare, facemmo la prima osservazione vera e propria della volta celeste. Per la prima volta ho visto l'Orsa (non il Carro). L'espressione persa, la coda che svolazza nel cosmo, e poi Arturo, e i due sguardi che si fissano, fermati in quell'istante fatale, così come li racconta Esiodo. L'ho visto ed è stata un'emozione indescrivibile. Loro due, madre e figlio, fissati in quell'eterno istante, da Zeus, mosso a pietà, dopo aver distrutto la loro vita. Quel racconto mitologico, che nel dettaglio non avevo mai ascoltato, nella sua crudeltà, nella sua bellezza, al freddo glaciale di una sera di primavera che però tardava a farsi sentire, è stato meraviglioso.

     

    Il resto non saprei. Non ho imparato molto. E' difficile orientarsi nel cielo, ma i principi di fondo mi sono chiari: "Non importa capire. L’importante è osservare, costruire piano piano. Se hai imparato a guardare, le cose poi le puoi sempre imparare. Passo dopo passo. Gli antichi hanno fatto le loro osservazioni, e anche se oggi sappiamo che tutto è stravolto, che è la terra a girare intorno al sole, in realtà tutta la loro osservazione resta per lo più valida. Cambia il punto di vista. Molte cose sono contemporaneamente sia vere, sia false".

     

    Non posso fare a meno, a posteriori, oggi che scrivo queste parole, di pensare alla psichiatria e ai suoi dogmi, non meno virulenti di quanto fossero i dogmi tolemaici. Modelli biologistici, che a metterli in discussione, ti mettono sul rogo. Eppure, che il re è nudo ormai lo vedono tutti, ma proprio tutti. Non solo Robert Whitaker e Jaakko Seikkula, che per me, sono come Basaglia e Don Milani.

     

    Ho imparato anche come funzionano le meridiane; ho visto, il giorno successivo, meravigliose miniature del 600 che illustravano come costruire orologi solari, lunari, meridiane, strumenti di ogni genere per osservare il cielo e misurare il tempo. Ho scoperto (o forse recuperato nozioni che in parte avevo, sparse) che nel medioevo e nel mondo antico chi scandiva il tempo era padrone, che ogni chiesa batteva il mezzogiorno a orari diversi, e che per darsi appuntamento da una città all'altra l'orologio non bastava, e occorreva un sapere sul sole, e sugli scarti che il sole produceva a varie latitudini.

     

    Dopodiché, tutto questo era accompagnato da canzoni musicate e composte dalle scolaresche negli anni appena trascorsi, dai racconti mitologici, ma anche dai racconti entusiasti delle maestre che illustravano quello che avevano fatto con gli allievi: le gite, le settimane dedicate allo studio della volta celeste, le uscite notturne, anche in estate, a scuola chiusa. Spedizioni notturne, con il naso all'insù. Spedizioni che le maestre facevano perché avevano costruito un percorso di ricerca, e se il solstizio c’è, quando è finito l’anno scolastico, si va avanti lo stesso, e tutti con il naso all’insù.

     

    Gli educatori del Movimento di Cooperazione Educativa ogni anno fanno una ricerca, propongono ai loro allievi i loro studi, approfondiscono e ricercano con loro. Se anche i loro allievi sono bambini di prima elementare o della scuola dell'infanzia, loro offrono agli allievi una vera ricerca. Il loro sapere deve avanzare, insieme a quello dei bambini. Entrambi sono alla ricerca, danno il loro contributo e tutto quello che si osserva ha valore. Gli adulti sospendono il loro sapere, e devo dire che io stessa mi sono resa conto della mia abissale ignoranza.

     

    Abbiamo fatto un seminario sul moto degli astri e ognuno di noi ha impersonato gli astri, mentre altri costruivano lo scenario dello zodiaco. Ho capito solo in minima parte come funziona il moto (apparente) del sole, della luna e della terra rispetto alle costellazioni.

     

    Ho capito poco perché viene privilegiato un sapere molto concreto e poco deduttivo, mentre io, ormai, sono molto astratta. In ogni caso, ho avuto qualche intuizione. Mi sono poi resa conto di quanto poco, a Milano, guardo il cielo. Il cielo ce lo siamo lasciati scippare, e viviamo sotto terra, prima del tempo.

     

    Se quello che offriamo alle persone di cui ci prendiamo cura e che assistiamo nel percorso di acquisizione di abilità di esplorazione, di orientamento, di ri-orientamento, è valido, dovrebbe esserlo anche per noi. Ripeto: passeremmo giornate intere buttati su un divano, a prendere pastiglie, a fare improbabili colloqui, sessioni di parcheggio e attività per deficienti?

     

    Ammettiamo, però, che questo semplice criterio di fondo, cioè fare quello che è buono, che è divertente, che fa star bene anche gli operatori, fare insieme, purtroppo nell'ambito della riabilitazione e delle cure psicologiche è andato perduto.

     

    Anche in pedagogia generalmente è andato perduto, ma non nell'approccio che ho visto messo in pratica lì.

     

    La rivoluzione di Basaglia e quella di Don Milani, di Pasolini, il superamento delle scuole speciali e l'abbattimento del muro dei manicomi, seguivano lo stesso criterio, la stessa etica.

     

    Noi, oggi, questo non lo ricordiamo più, non siamo più in grado di esprimere, nel "come" facciamo le cose, questo messaggio. Ai giorni nostri, purtroppo, il mondo della pedagogia, delle scienze della formazione e quello della cura, sono lontani anni luce. Il primo si colloca sotto filosofia, l'altro, quello della cura, sotto medicina.

     

    Vorrei che tutti coloro che hanno letto questa mia testimonianza, potessero farne un’occasione, una coincidenza, per andare a leggersi o a rileggersi il meraviglioso libro «Lettera a una professoressa» (Don Lorenzo Milani, 1996). 

     

    Un libro che io spero che tutti abbiate letto, ma se non lo avete fatto, fatelo ora.

     

    Questo libro corale, ma quasi anonimo, impersonale eppure frutto di atti di soggettivazione, segnò la svolta per molti intellettuali (fra cui lo stesso psicoanalista milanese Fachinelli) ed è un libro che io credo anche tutti gli operatori della salute mentale e del sociale debbano avere presente. È un testo di verità, che trasuda illuminismo, un atto di accusa ma anche un miracolo di fioritura d’intelligenze che si è prodotto nelle campagne italiane. Un libro pieno d’ironia e di vitalità, armato e animato.

     

    A Cenci, il gruppo di Cooperazione Educativa, realizza seminari di vita, di convivenza 7-70 (cioè campi estivi, dove le persone convivono dai 7 ai 70 anni di età), e si sperimentano laboratori di creatività, i più vari.

     

    Vi dico solo del "premio ignobel" per le macchine inutili, che è un modo di esercitare il pensiero divergente, l'ironia, ma anche l'inventiva e l'ingegno, lo spirito critico, ma sarebbe troppo lungo da raccontare. Si dovrebbe scrivere un libro.

     

    Desidero ringraziare Luca Mingarelli e Nicoletta Lanciano, e tutti gli altri straordinari viandanti del Cielo che ho conosciuto a Gubbio.

     

    Qui sotto il link al sito del Movimento.

     

    www.mce-fimem.it

     

    www.madinamerica.com



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    M@gm@ ISSN 1721-9809
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