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  • Questions de genre dans les communications scientifiques
    Mabel Franzone et Orazio Maria Valastro (sous la direction de)

    M@gm@ vol.15 n.3 Septembre-Décembre 2017





    IPAZIA E LE SCINTILLE ASTRONOMICHE DELL'ANIMA

    Andrée Bella

    andreebella@libero.it
    Psicologa clinica, dottore di ricerca in scienze umane presso l'Università di Milano-Bicocca di Milano, docente del master in Culture simboliche per le professioni dell'arte, della cura e dell'educazione, assegnista di ricerca in Psicologia dinamica presso l'Università di Bergamo (2014-2105), socia e membro di Philo Scuola superiore di pratiche filosofiche di Milano.


    Women in Science: Hypatia by Rachel Ignotofsky

    «Ci sono anche nel firmamento della memoria umana i buchi neri, le stelle invisibili dalla prodigiosa forza di attrazione? Mi interrogo anche sulla potenza dei nomi. Nomi numinosi, che lasciano passare una quantità di vita che oltrepassa le persone che li incarnano e li fecero ricordare. Nomi-mantra che emettono messaggi ed avvisi, nomi nei quali è compressa una forza di significazione che attende il suo momento per manifestarsi? Dietro di essi s'aprono gorghi di incandescenza o di vuoto e la mente viaggia in un universo dai confini incerti bordeggiando un arcipelago brulicante di grumi che non si sa più se sono relitti di esperienze perdute o embrioni di esperienze da fare. Uno slancio finale mi proietta la accecante onnipresenza del tutto: ed è l'unica conclusione che sia capace di mettere a tacere il perché: perché Ipazia, perché Sinesio.» (Luzi M. 1980, pp. 42-43).

     

    Queste parole riescono ad esprimere ciò che mi piacerebbe fare in questo articolo: ricostruire  una mappa dell'insegnamento di Ipazia e illuminare una parte spesso messa in ombra della sua figura per recuperare «relitti di esperienze perdute» nel modo di portare avanti una ricerca, che oggi chiameremmo scientifica, di una donna vissuta fra il IV e il V secolo d. C. ad Alessandria d'Egitto. Vorrei sottolineare l'incommensurabile distanza dal presente e le differenze che rendono per noi quasi inimmaginabile la sua pratica di conoscenza, in modo da farne un frammento di storia dalla carica eversiva nei confronti dei criteri egemoni della scientificità odierna. Una scheggia immaginaria che possa servire per una riflessione sui linguaggi scientifici e le appartenenze di genere nella produzione e trasmissione dei saperi, capace magari di aiutare a mettere in discussione inveterate strutture e abitudini disciplinari negli insegnanti o in coloro che si occupano di far circolare la conoscenza. Una vicenda la cui "forza di significazione" potrebbe suggerire, forse, «embrioni di esperienze da fare».

     

    Ipazia è senz'altro una fondamentale figura storica e mitica nel rapporto tra donne e scienza, celebre e studiata da secoli: il suo nome è stato dato nel tempo ad asteroidi e centri di ricerca, la sua vicenda ha dato vita ad opere letterarie ed artistiche [1]. Uccisa ad opera di una folla di fanatici cristiani, monaci-infermieri chiamati parabalani al servizio del vescovo di Alessandria Cirillo, la violenza tragica della sua morte ha contribuito a farne un'eroina che diversi partiti nel tempo hanno adattato alla difesa della loro causa; in particolare, nell'immaginario oggi maggiormente diffuso, Ipazia diviene icona del progresso scientifico contro l'oscurantismo religioso [2].

     

    Il dibattito mediatico che ha fatto seguito all'uscita in Italia del film di Alejandro Amenabar Agorà  (2010) incentrato sulle vicende della filosofa alessandrina, attesta con chiarezza l'incapacità di uscire da questa dicotomia [3]; tale opposizione sembra avallata anche da filosofi e scienziati noti che hanno contribuito negli ultimi decenni alla divulgazione della sua storia. Qualche esempio. Leggiamo in una delle recensioni del film uscite su «Il Manifesto»:

     

    «Ipazia era una scienziata di grandissima levatura, ma non un’eccezione in Alessandria e in quell’epoca: lei fu l’ultima direttrice della Scuola Alessandrina, della prima università del mondo, un'università che era durata per quasi 800 anni, dove avevano studiato i più grandi geni dell’umanità, dove sarebbe bastato lasciarli in pace a studiare per non arrestare il progresso (…) Ipazia, inoltre, creava anche strumenti utili, come l’aerometro, l’idroscopio, l’astrolabio per trasferire la “teoria nella pratica”: possiamo affermare che fu la madre della scienza sperimentale» (De Feo, 2010).

     

    Mi limito per ora a registrare tre peculiari punti di vista sottintesi in queste righe: l'ideale di un progresso scientifico orientato soltanto al futuro, in vista dell'accumulo di conoscenze, in un avvicinamento asintotico e graduale all'esattezza; l'idea di scienza sperimentale come possibilità di applicare e verificare le teorie scientifiche, invalidandole e superandole all'occorrenza; infine l'uso della parole “università” per definire il Museo di Alessandria. O ancora si legge in un articolo de «L'Unità» del 23 aprile 2010: «Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione» (Crespi, 2010). Ipazia dunque avrebbe lottato per la ragione.

     

    Ecco il ritratto che il matematico Piergiorgio Odifreddi ne traccia sul quotidiano «La Stampa» del 21 agosto 1999:

     

    «Ipazia e suo padre sono passati alla storia scientifica per i loro commenti ai classici greci: si devono a loro le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell'Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione. In un mondo che ancora oggi è quasi esclusivamente maschile, Ipazia viene ricordata come la prima matematica della storia: l'analogo di Saffo per la poesia, o Aspasia per la filosofia. Anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento (…) Il razionalismo di Ipazia, che non si sposò mai ad un uomo perché diceva di essere già “sposata alla verità”, costituiva un contraltare troppo evidente al fanatismo di Cirillo».

     

    Gli fa eco l'astrofisica Margherita Hack nella prefazione ad un romanzo storico sulla filosofa uscito in Italia nel 2009: «Ipazia rappresenta il simbolo dell’amore per la verità, per la ragione, per la scienza, che aveva fatta grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio comincia quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tenta di soffocare la ragione». Ma cosa significano oggi le parole ragione, scienza, filosofia? Cosa implica pensare ad Ipazia attraverso questi termini? Dobbiamo tentare qui a mio avviso un piccolo esercizio di storia delle idee.

     

    Innanzitutto dobbiamo iscrivere Ipazia nella grande tradizione della filosofia ellenica antica, che era  pratica di vita, esercizio di trasformazione e miglioramento di sé alla ricerca di una saggezza da incarnare nel proprio comportamento, prima che un insieme di discorsi o di nozioni [4]. Non che le teorie o gli scritti fossero privi di importanza, tuttavia ciò che distingueva un vero filosofo era la saggezza del suo vivere. Pierre Hadot fornisce di questo una metafora chiarissima: i discorsi erano a suo avviso per gli antichi filosofi come la dinamo della bicicletta, luce per l'orientamento del percorso ma dipendente dall'atto di pedalare, senza il quale non si dava luce né movimento; Hadot paragona tale atto alla pratica e all'esercizio, vero motore e carattere peculiare di una filosofia che è un ethos, un modo di agire. Di questo abbiamo molte prove per quanto riguarda Ipazia: era infatti riconosciuta unanimemente dalle fonti [5] come una grande filosofa, pur non avendo scritto opere filosofiche vere e proprie [1].

     

    Cominciamo la nostra analisi con un racconto di Socrate Scolastico:

     

    «C'era una donna ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia, aveva ricevuto in eredità (diadoché) l'insegnamento della scuola platonica derivante da Plotino ed esponeva a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche (...). Da ogni parte accorrevano a sentirla quelli che volevano darsi alla filosofia. Dall'educazione ellenica (paideia) le derivavano un autocontrollo e una franchezza nel parlare (parresia) che le permettevano di affrontare, faccia a faccia, con la stessa imperturbabilità anche i potenti, non aveva paura di apparire alle riunioni degli uomini: per la sua straordinaria saggezza, tutti i maschi le erano deferenti e la guardavano, se mai, con stupore e timore reverenziale» (citato in Ronchey S., 2010, pp. 15, 18 e 20).

     

    In questo passaggio Silvia Ronchey traduce con «autocontrollo e franchezza nel parlare» il vocabolo greco parresia. Ipazia è detta capace di parresia, un tradizionale esercizio filosofico. Foucault dedicherà alla storia di questo esercizio il suo ultimo corso al Collège de France (Foucault M., 1984). Provo a riassumere alcuni capisaldi della sua indagine.

     

    Il termine parresia, letteralmente in greco dire tutto, in una sua prima e più semplice forma, significa dire la verità su ciò che si pensa a dispetto dei pericoli che assumere una determinata posizione può comportare. Inizialmente atto politico che il cittadino ateniese poteva compiere in assemblea nella forma del voto, rischiando di andare contro al parere della maggioranza, diviene poi, a partire da Socrate, una pratica etico-filosofica di veridizione che può rivolgersi liberamente ad altri. Essa può assumere diverse forme al di fuori del mondo della politica istituzionale, solo se costantemente esercitata rispetto a se stessi, al proprio comportamento e al proprio sentire. L’obbiettivo di questa nuova forma di parresia diviene quello di  formare un certo modo di essere, di fare e di comportarsi tramite un’interrogazione critica coraggiosa e inesausta di sé e degli altri. Interrogazione critica che comporta la scelta di mettere la propria esperienza di vita, il proprio bios continuamente sotto esame, in vista di una possibile consapevolezza che possa permettere un miglioramento del singolo e della società.

     

    Un episodio emblematico di parresia è quello del cinico Diogene di fronte ad Alessandro Magno: quando il sovrano dice a Diogene di essere disposto a realizzare qualunque suo desiderio proprio per ringraziarlo della sua capacità di sapere dire verità, anche scomode, persino ad Alessandro il Grande, il filosofo gli chiede solo di spostarsi dal sole per non metterlo in ombra, dimostrando di non avere bisogno di nulla e di trovare nel diretto contatto con i raggi solari una reale sovranità degna di una relazione senza mediazioni con il simbolo regale del sole; autarchia molto più preziosa che qualsivoglia regno. Cosa significa qui parresia? Innanzitutto dire la verità mettendosi a rischio nel senso che Diogene è in grado di dire ad Alessandro, senza paura, che secondo lui il vero sovrano è colui che non ha bisogno di scorte né di regni materiali ma che è re di se stesso, ovvero capace di una vita libera, indipendente da ricchezze ed onori, in rapporto con la verità grazie ad un costante esercizio e ad un coraggioso modo di vivere che è appunto quello del filosofo, cinico nel suo caso. Questa parola di verità e questo coraggio sono possibili in relazione ad un esercizio parresiastico che caratterizza la propria intera vita. Esercizio che apre anche alla possibilità di mantenere un atteggiamento critico nei confronti delle idee ed usanze sociali e culturali cui si appartiene.

     

    «La magnifica libertà di parola e di azione» (così Beretta traduce il termine parresia impiegato da Socrate Scolastico; Beretta G., 2014, p.134) di Ipazia di fronte ai potenti, la sua capacità di parresia, implica dunque un esercizio etico costante che attesta il suo essere una vera filosofa più della paternità (o maternità?) di qualsivoglia trattato. La sua morte è anche testimonianza concreta del rischio assunto su di sé in relazione al suo modo di vivere.

     

    In effetti, l'importanza della filosofia come  esercizio su di sé, capacità di non cedere al richiamo del potere, del denaro, della fama, o alle pressioni delle opinioni altrui, magari avallate dalla maggioranza, è attestata chiaramente anche da Sinesio, allievo di Ipazia che, dichiarandosi devoto discepolo ed estimatore della filosofa alessandrina, rappresenta per noi una delle più preziose fonti per risalire al suo insegnamento (vedi Teruel P. J., 2010) [7]. Nei suoi scritti Sinesio fa emergere con chiarezza la profondità della stima e della fiducia che nutriva per la sua «veneratissima maestra» (Sul dono, p. 547), a cui in punto di morte scrisse:

     

    «(…) o madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant'altri mai onorato (...) se c'è qualcuno venuto dopo che ti sia caro, io debbo essergli grato poiché ti è caro, e ti prego di salutare anche lui da parte mia come amico carissimo. Se tu provi qualche interesse per le mie cose bene; in caso contrario non importano neanche a me» (Lettera 16, p.103).

     

    Percorre l'intero corpus dei suoi scritti l'opposizione fra filosofi e sofisti secondo l'eredità platonico-socratica: i sofisti possono essere eruditi, saper parlare e scrivere bene, conoscere a menadito il pensiero di tutti i filosofi esistiti, ma non possono essere a loro volta definiti filosofi se non indirizzati alla trasformazione della propria vita, alla ricerca incarnata di giustizia e sapienza. Nel saggio di Sinesio Dione. O del vivere secondo il suo ideale, il tema della vita filosofica è centrale, ed evidente persino dal titolo. Già dalle prime pagine, dedicate a stabilire se Dione sia da considerare o meno un vero filosofo, Sinesio sostiene che, nonostante questi sappia scrivere di ogni argomento, compresi quelli più futili, in modo erudito e raffinato come un sofista, ciò nondimeno vi sono anche veri filosofi che si esprimono con facilità di stile, brillanti nel parlare, i quali rischiano di aver fama di sofisti senza esserlo davvero. Fra questi, Dione (Dione, pp. 659-665) e, aggiungiamo, Sinesio stesso, che, scrivendo di Dione, parla in primo luogo di sé. Fra le molte prove addotte per dimostrare che Dione può essere considerato un filosofo, Sinesio ricorda come questo autore abbia lodato e detto gradito agli dei, tra quattro tipi di vita, il dedito alle ricchezze, il dedito ai piaceri, il dedito all'ambizione e il dedito alla sollecitudine, alla benevolenza e alla saggezza, il quarto (Dione, pp. 665-667).

     

    Non possiamo avere dubbi, anche solo partendo da questi cenni, che sia necessario iscrivere Ipazia in questa antica tradizione dove ciò che è davvero filosofico non è il pensiero da solo, ma la coerenza tra riflessione, ideali, vita [8].

     

    Questo idea di vita e saggezza è, per quanto riguarda Ipazia, ascrivibile al neoplatonismo, così come possiamo ricostruirlo ad Alessandria, nella sua cerchia di amici e discepoli. Una delle caratteristiche dell'ideale del saggio in tale ambito, secondo le diverse fonti, riguarda l'esercizio di una cura politica. Sempre Sinesio, in un altro dei suoi scritti A Peonio. Sul dono, dedicherà un intero paragrafo all'importanza di cercare di rendere nuovamente vivo l'antico rapporto fra filosofia e politica; dopo aver citato vari esempi di un passato considerato illustre, lamenta la difficoltà nel presente di portare avanti questa preziosa tradizione: «Come un tempo s'alleavano filosofia e politica e la loro unione produceva tali imprese. Ma, come accadde con tutte le altre belle e nobili cose, sulle quali il tempo agì sconsideratamente, anche questa coppia col trascorrere degli anni venne meno e in seguito si dissociò» (Sul dono, p. 543). Parole che fanno eco in modo sorprendente a quelle del filosofo neoplatonico Damascio in cui si può trovare un  racconto della vita di Ipazia che in alcune delle sue parti sottolinea a pieno questo aspetto:

     

    «Epifanio ed Euprepio furono entrambi di stirpe alessandrina e molto esperti nei misteri in vigore presso gli alessandrini (...) Questi uomini, invero, non vivevano più secondo la politeia antica e veneranda, ma avevano incontrato e si erano intrattenuti con coloro che vi erano appartenuti e, tratto vantaggio dalla loro compagnia, in seguito divennero portatori di molti beni presso i loro contemporanei, araldi dalle molte voci e antichi racconti» tra questi essi «narravano un racconto sacro e politico della buona disposizione degli alessandrini»  e questo è il racconto di Ipazia che segue: «nacque, crebbe e fu educata ad Alessandria. Di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui, ma, non senza altezza d'animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettatosi addosso il mantello e facendo le sue uscite nel mezzo della città, spiegava pubblicamente, a chiunque volesse ascoltarla, Platone, Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo. Oltre che nell'arte di insegnare, [ella] giunse al più alto grado della virtù pratica; (...) Poiché tale era la natura di Ipazia,  era cioè pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente,e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo» (citato in Beretta G., 2014, pp. 135-136).

     

    Questo racconto attesta nella sua forma più concreta un antico legame tra filosofia e politica che Damascio sembra considerare addirittura sacro e di cui Ipazia viene considerata esponente, quasi ne fosse uno degli ultimi, ormai rarissimi, retaggi.

     

    Sinesio rende manifesta la cura etico-politica della comunità esercitata da Ipazia, laddove per esempio, in una lettera a lei indirizzata, datata al 413, scrive: «Tu hai sempre il tuo prestigio e mi auguro possa servirtene nel modo migliore. Ti raccomando Niceo e Filolao, ottimi giovani parenti fra loro, perché rientrino in possesso dei loro beni: vorrei che ottenessero l'appoggio di quanti, privati o magistrati, onorano la tua persona» (Lettera 81, p.231).

     

    L'ideale della virtù politica era componente importante della vita filosofica sia per Sinesio che per Damascio, ed Ipazia, secondo la testimonianza di entrambi, lo incarnava molto bene. Aspetto che Damascio afferma avere una connessione con il sacro. Cosa significa questo? Il riferimento al legame tra sacro e valenza politica della vita filosofica, può essere forse compreso appieno solamente tenendo conto della relazione ineludibile fra la filosofia neoplatonica, di cui Ipazia fu erede e maestra, e la ricerca del divino [9]. Ricerca che doveva prendere avvio, nell'insegnamento neoplatonico, con lo studio della matematica, la geometria, l'astronomia e la stereometria, poi la musica per culminare infine nella dialettica e nella teurgia.

     

    E qui veniamo all'ultimo aspetto che mi interessa sottolineare dell'insegnamento di Ipazia, quello misterico, legato alla purificazione dell'anima fino al ricongiungimento con il divino. Sinesio ne dà una testimonianza inconfutabile. Non solo per via degli appellativi di evidente sapore religioso rivolti a più riprese alla sua venerata maestra, «signora beata» (Lettera 10, p. 95) dallo «spirito divinissimo» (Ibidem, p. 97), ma anche per dichiarazioni esplicite che compaiono numerose negli scritti del filosofo di Cirene. Così comincia una lettera scritta al suo amico Erculiano:

     

    «Se Omero disse che i viaggi di Odisseo presentavano il vantaggio di fargli vedere molte città e conoscere l'indole di molti uomini, e ciò nonostante egli approdasse non presso genti evolute, ma presso i Lestrigoni e i Ciclopi, tanto più, certamente la poesia avrebbe celebrato il nostro viaggio che ha permesso a me e a te di fare esperienza di cose che, al sentirle raccontare, sembravano incredibili. Abbiamo potuto vedere con i nostri occhi e ascoltare con le nostre orecchie la donna che a buon diritto presiede ai misteri della filosofia [ma il sintagma greco filosofias orghiōn è tradotto da Silvia Ronchey con «misteri e orge della filosofia», [Ronchey, 2010, p.167] (Lettera 137, p. 331).

     

    Tale donna è appunto Ipazia. «Misteri-orge della filosofia» è un'espressione che il filosofo di Cirene usa in altre sue lettere, per esempio nella 143, sempre indirizzata ad Erculiano.  In tale lettera risulta chiaro sia il sacrilegio che avrebbe rappresentato parlare con chi non fosse a sua volta filosofo di tali misteri [10], sia il riferimento ad una numerologia sacra condivisa fra selezionati compagni:

     

    «In nome del dio dell'amicizia che ti protegge, non mostrare a nessuno questa lettera (...) Quello però che Sinesio dice a sé stesso lo dice anche alla tua preziosa persona, a te che sei il suo solo amico o al massimo uno in compagnia di altri due. Al di fuori della triade che voi costituite non c'è nessuno che, fra gli uomini, mi sia altrettanto prezioso. Aggiungendo me stesso, componiamo forse la tetrade della sacra amicizia. E la si menzioni con riverenza, perché ripete nel nome la tetrade dei primi principi. (…) “Possa tu viver sano” nella ricerca religiosa e accorta della filosofia» (Lettera 143, pp. 347-349).

     

    La lettera si apriva con queste parole: «Tu non stai mantenendo, carissimo, la promessa fattami di non svelare cose che sono da tenere nascoste» (p.345). Ed è a partire da questa preoccupazione che Sinesio scrive: «Quanto a me, io sono, e così ti prego sia tu, un più accorto custode dei misteri-orge della filosofia». Che Ipazia di tali misteri sia stata per il filosofo di Cirene una maestra è ulteriormente ribadito da una lettera a lei indirizzata, in cui l'allievo le sottopone tre scritti affinché ne giudichi il valore e lo autorizzi eventualmente a diffonderli. Fra le opere che le manda in lettura figura anche I sogni, testo che Sinesio definisce «voluto e vagliato dalla divinità» e composto «tutto in una notte, anzi nell'ultima parte della notte che mi portò il sogno che m'ingiunse di scriverlo, e in qualche passo, due o tre, di essa mi sembrò ch'io fossi, quasi una terza persona, l'ascoltatore di me stesso, insieme con altri presenti. Ma anche ora lo scritto produce in me, ogni volta ch'io mi vi accosti, una sensazione meravigliosa, e m'avvolge, per dirla con il poeta, come una voce divina. Se questa impressione è mia soltanto o possa verificarsi in altri, anche di ciò tu mi dirai, la prima fra i Greci, dopo di me, ad aver letto il libro. I libri che ti mando son di quelli ancor inediti. Perché il numero sia perfetto [allusione alla perfezione del numero 3], aggiungo l'opuscolo Sul dono (...)» (Lettera 154, pp.375-377).

     

    Ecco come presenta il suo libro sui sogni alla filosofa:

     

    «A colui che non è inesercitato nel sorprendere come dei tratti divini anche sotto un vile aspetto (…), a costui non sfuggirà che il mio libro rivela non poco anche in fatto di dottrina sacra, ma il cui significato si sottrae all'attenzione degli altri per una sua certa ridondanza e per essere frammisto al discorso un po' troppo casualmente e in modo a prima vista brusco. I bruschi cali di temperatura provocati dalla luna sono solo gli epilettici a percepirli e le irradiazioni delle operazioni dell'intelletto le ricevono solo coloro nei quali, nella sanità del loro occhio di intelligenza, il dio accende una luce a lui affine, la luce che fa sì che gli esseri intellettuali pensino e gli oggetti intellegibili siano pensati. Allo stesso modo la luce terrena mette la nostra vista in contatto con il colore; ma se togli la luce, inefficiente è la relativa facoltà della vista anche in presenza del colore» [11] (Ibidem, p.375).

     

    La presentazione dell'opera sui sogni, e la lettura dell'opera stessa, elogio della dimensione onirica e della divinazione come la più alta forma di conoscenza, ricca di riferimenti alla purificazione dell'anima e al contatto con gli dei, non lascia dubbi sul fatto che Ipazia non solo potrà capire e condividere quanto scritto, ma potrà anche giudicarlo degno o meno di valore, come vuole il suo ruolo di insegnante e iniziatrice. Leggiamo in un passo del Dione un riferimento a rapporti iniziatici tra Socrate e Aspasia che sembrano ricalcare quelli tra Ipazia e Sinesio [12]:

     

    «(…) In verità in entrambi i campi io voglio divenire esperto, “esser dicitore di parole e conoscitore delle cose” e non disprezzare Socrate poiché non negò di essere in grado di onorare con la parola anche i caduti, al momento del loro pubblico funerale, pur ritenendo il loro compito superiore alle sue forze. Attribuì infatti codesta capacità ad Aspasia, presso la quale si recava come scolaro per farsi istruire in questioni erotiche. Se uno abbia compreso il senso di codesti rapporti tra Aspasia e Socrate a proposito dell'eros, non dubiterà che la filosofia, dopo aver ficcato il viso nei più alti misteri, saprà riconoscere ovunque e apprezzare il bello (...)» (Dione, p.707).

     

    E se volessimo dubitare metodologicamente dell'uso di Sinesio come unica fonte in proposito, possiamo aggiungere che simili tracce sono identificabili nella quasi totalità delle testimonianze sulla filosofa alessandrina. Eccone un'ulteriore prova tratta dai materiali già citati: quando Damascio scrive che Ipazia era «grandemente ossequiata» si avvale del verbo greco proskyneō che «tradizionalmente veniva usato per indicare il modo in cui erano adorate le statue della divinità: in tempi antichi, per esempio, proskynemata erano chiamati gli atti di adorazione nei confronti di Iside, mentre ancora nel IV secolo questo verbo indicava l'uso di “prostrarsi davanti ai simulacri degli dei”. Tuttavia, a questo significato che ricorre proprio nella stessa Vita di Isidoro, nella tarda antichità se ne era affiancato un altro che indicava l'ammirazione reverente di cui erano oggetto uomini e donne in carne ed ossa ma legati ad un rapporto privilegiato alla sfera del divino e del sacro. Nella biografia della filosofa Sosipatra, ad esempio, Eunapio riferisce che la popolazione di Pergamo “recava ossequio (proskynei) e aveva un religioso timore davanti allo stato di possessione di cui era capace la donna”» (Beretta G.,2014,p. 175).

     

    É da rilevare, che questo legame con il divino, la conoscenza estatica, il sacro, lungi dall'essere indipendente, o addirittura opposto, allo studio delle scienze matematiche ed astronomiche ne rappresenta piuttosto il più nobile coronamento.  Fra i molti esempi possibili scegliamo  un passo di Sinesio sull'astronomia destinato all'amico Peonio:

     

    «Dopo essermi informato su di te presso coloro che mi hanno preceduto nella tua familiarità, e dopo averti conosciuto un po' io stesso, desidero ravvivare le astronomiche scintille insite nel tuo animo facendole salire verso l'alto grazie alla stessa forza ch'è in te. L'astronomia è di per se stessa una scienza di alta dignità, ma può forse servire da ascesa a qualcosa di più alto, da tramite opportuno, a mio avviso, verso l'ineffabile teologia, giacché il beato corpo del cielo ha sotto di sé la materia e il suo moto sembra ai sommi filosofi essere un'imitazione dell'intelletto. Essa procede alle sue dimostrazioni in modo indiscutibile e si serve dell'aiuto della geometria e dell'aritmetica, che non sarebbe disdicevole chiamare retto canone di verità» (Sul dono, p. 545).

     

    Sappiamo dal seguito del testo che per questo motivo Sinesio regalerà a Peonio un planisfero celeste costruito «sulla base di quanto m'insegnò la mia veneratissima maestra (sebasmiotate didaskalos)», ovvero Ipazia. Lo scritto si conclude con un epigramma che descrive alcune regole per comprendere lo strumento e intona una lode della sapienza che meravigliosamente ha trovato l'accesso al cielo. Proprio con la perfezione dei numeri e l'osservazione del cosmo, Ipazia, da buona neoplatonica, apre la strada al carattere religioso e accorto della ricerca filosofica.

     

    Così scrive nel VII secolo, con intento di calunnia, il vescovo Giovanni di Nikiu:

     

    «Apparve ad Alessandria una donna filosofo, una pagana di nome Ipazia, che dedicava tutto il suo tempo all'astrologia, agli astrolabi e agli strumenti musicali, e abbindolava molte persone con i suoi inganni satanici. E il governatore della città la onorava esageratamente; perché lei aveva sedotto anche lui con la sua magia. E così lui aveva smesso di andare in Chiesa, com'era in precedenza sua abitudine. E non solo, ma aveva portato dalla parte di lei molti credenti. E lui stesso riceveva miscredenti nella propria dimora. Una moltitudine di credenti in Dio si levò sotto la guida di Pietro il Lettore - uomo che su Gesù Cristo professava dogmi ineccepibili sotto ogni aspetto - e presero a ricercare la donna pagana che aveva stregato il popolo della città ed il prefetto con i suoi incantesimi.  E quando vennero a sapere in che luogo si trovava, si misero in marcia per andare a punirla e la trovarono seduta su un alto scranno. E dopo averla strappata dalla sua cattedra la trascinarono con loro fino a portarla nella grande chiesa chiamata Cesareo. Si noti che questo avveniva nei giorni del digiuno. E tutti presero a strapparle le vesti, e poi la fecero trascinare [dietro un carro] attraverso le strade della città, finché morì. Allora portarono il suo corpo in un luogo chiamato Cinaron e lo diedero alle fiamme. E tutto il popolo [cristiano] circondò il patriarca Cirillo e lo acclamò “nuovo Teofilo”, perché aveva liberato la città dagli ultimi residui di idolatria» (Ronchey S., 2010,  pp. 46 e 178).

     

    Ecco una nota del noto storico della tarda antichità, Michel Tardieu, inviato al collega Pierre Chuvin in vista di una riconsiderazione della figura di Ipazia a fronte di questo testo:

     

    «Il termine etiopico per astrologia è esaturlabat (…) G. di N. [Giovanni di Nikiu] impiega lo stesso termine a proposito di Kenan, inventore della divinazione tramite gli astri e dell'astronomia secondo il libro dei Giubilei (8,3). (...) Egli per primo produsse degli astrolabi (asturlabat) (…) Il termine “astrolabi” rimanda dunque alla scienza e alla pratica dell'astronomia nella scuola di Ipazia - la quale è figlia di Teone di Alessandria, astronomo ed esegeta di Tolomeo, professore di matematica e di astronomia. Ciò che G. di N. chiama “magia” designa la teurgia, tecnica di purificazione dell'anima per renderla capace di accedere alla visione d'insieme e all'unione estatica che è all'acme della dialettica secondo la formula platonica (Repubblica, 7, 537c). (...) La musica designa l'arte indissociabile dagli astri dopo la musica platonica delle sfere. Ipazia è filosofa in senso pieno, dato che è insieme astronoma, teurga e musicista. Questi tre aspetti sono inseparabili. L'immagine tripartita della filosofia ipaziana è presentata negativamente in  G.d.N. ma è esatta» (Chuvin, 2012, p.302).

     

    Ciò che qui più mi interessa sottolineare  è che questi aspetti sono indissociabili.

     

    In particolare il legame tra astronomia, matematica, divino è nel neoplatonismo alessandrino del IV secolo d. C. consolidato, indiscutibile [13]. Lo stesso padre di Ipazia, Teone, «erede di una delle scuole matematiche più grandi e di lunga durata di ogni tempo» (Beretta G., 2014, pp.41-42), quella alessandrina appunto, fondata da Euclide all'inizio del III secolo a. C., e autore di un commentario agli Elementi di Euclide e al Sistema matematico di Tolomeo, scrisse altresì dei trattati Sui presagi e sull'osservazione degli uccelli e la voce dei corvi, interpretò opere astronomiche e gli scritti di Ermete Trismegisto e Orfeo, oltre che un'opera Sull'inondazione del Nilo e Sul sorgere del cane, la stella dai greci associata a Sirio, e dagli antichi egizi a Iside (Beretta G., Ibidem, p.47). Anche il Museo del resto, fu luogo di studio e di ricerca dedicato alle Muse, fondato nel III secolo a.C. da Tolomeo Soter e fin dalle sue origini presieduto da un sacerdote. Secondo la vivace descrizione che ne dà Ammiano Marcellino nelle sue Storie, intorno alla metà del VI secolo era ancora un importante centro di ricerca soprattutto per la sua rinomata scuola di medicina e appunto per quella matematica cui appartenne anche Teone (e a cui, lo ricordiamo, appartennero i più grandi matematici dell'antichità fra cui Euclide, Diofanto e Pappo). Del resto le due scuole «non dovevano essere completamente separate tra loro dal momento che proprio il mondo alessandrino aveva favorito lo sviluppo dell'applicazione della matematica alla medicina. L'inizio di questa applicazione, come osserva Kline, fu mediato dall'astrologia: “i dottori, che venivano chiamati iatromatematici, si servivano di segni astrologici per seguire il corso della terapia”» (Beretta G., 2014, p.40). Lungi dal farci subito pensare che questo sia segno di ignoranza o superstizione, mischiate ad un rigore razionale cui dobbiamo piuttosto le scoperte tutt'ora ritenute importanti per la storia della matematica, dovremmo considerare il significato per noi inimmaginabile di questo fecondo intreccio. Le persecuzioni imperiali contro i matematici (in particolare in Egitto) attestate dal Codice teodosiano (Boyd W. K., 1905; Barb A. A., 1968), danno una chiara testimonianza della persecuzione della condanna di un sapere che comprende e trascende la vicenda di Ipazia [14]: per esempio Valentiniano I che pure ristabilì parzialmente la libertà religiosa per pagani e cristiani, mantenne il divieto di consultare matematici (astrologi) o maghi, di notte o di giorno, in pubblico o in privato, aggiungendo che non era lecito imparare o insegnare simili cose (Cod. Teodosiano IX, XVII, 8 in Barb A. A., 1968, p. 123). Ancora dopo Teodosio, i matematici potevano purificarsi bruciando i loro libri di fronte ai vescovi e promettendo di non ricadere nei propri errori accettando la fede cristiana. Se rifiutavano per altro venivano deportati  (Cod. teod. IX, XVI, 12) [15]. Vero è che la parola mathematica in latino significaanche astrologia [16]. Ma questo potrebbe appunto non essere un caso, piuttosto la spia di una vicenda storica.

     

    Torniamo dunque, per concludere, alla nostra Ipazia e alle scintille astronomiche della sua anima. Espressione che forse ora possiamo considerare non solo come semplice metafora poetica. Nell'anima filosofica infatti sappiamo esserci per Sinesio le scintille del fuoco della conoscenza, accese di quello stesso fuoco che è la luce degli astri. Quella luce che così forte emanava dalla vita di Ipazia al punto da suscitare grande rispetto e considerazione:

     

    «Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole,

    vedendo la casa astrale della Vergine,

    infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto

    Ipazia sacra, bellezza delle parole, astro incontaminato della sapiente cultura» [17]. (Pallada, Antologia Palatina, IX 400, citata in Beretta G., 2014, p. 118).

     

    In questi versi dedicati ad Ipazia da un poeta alessandrino, ci è detto che verso il cielo erano rivolti tutti gli atti della sua anima accesa di sapienza, ed anche qui la licenza poetica può mostrare con un'immagine efficace aspetti cruciali della ricerca della filosofa egizia:

     

    «La scienza fisica, la matematica, la teologia e l’indicazione etica si intrecciano indissolubilmente in questa ricerca filosofica. E fino nelle scienze uranie, apparentemente remote dalle umane cure, si coglie la valenza politica, si trasmette la filosofia come “uno stile di vita, una costante, religiosa e disciplinata ricerca della verità” (così Bregman, Synesius of Cyrene: Philosopher Bishop, 1982). Quindi Ipazia, astronoma e matematica, fu maestra (“veneratissima”) di vita; secondo questa esperienza la scienza fu modo di vita; l’astronomia/astrologia fu ad un tempo contemplazione estetica ed etica, indagine condotta con strumenti matematici , e occasione  di un contatto con il divino che segna i limiti del dicibile, diventando gesto» (Baracchi C., 2010, p. 14).

     

    A partire da qui dobbiamo tornare all'inizio. La costruzione dell'astrolabio usato come prova di una scienza sperimentale ante-litteram non ha nulla a che vedere con la descrizione di questo strumento nel pensiero-vita di Ipazia e Sinesio, né possiamo pensare che potesse esserle appartenuta l'idea di un progresso lineare felice di correggere e sovvertire gli errori dei predecessori più della necessità di conservare una tradizione antica che si incarnava in una pratica di vita, perlopiù minacciata di distruzione. Tanto meno assimilarla ad un'odierna professoressa universitaria di matematica all'interno di un'attuale università. Ancor meno pensare che per lei la ragione fosse quella che ha preso forma e potere in Occidente a partire dall'Illuminismo: un pensiero che contrappone materia e spirito, scienza e religione. Se facessimo simili errori interpretativi, come spesso accade nella storia egemone delle nostre discipline, saremmo costretti contro ogni nostro più nobile intento, a ridimensionare in fretta l'importanza e il valore di figure come quella di Ipazia. Lo stesso Odifreddi in effetti farà notare in una sua comunicazione pubblica «per dovere di “matematico e razionalista”, che  questa “proto-martire della ragione” non fu “una grande matematica, una grande scienziata”, e che si è “costruito” su di lei “un mito”» (Baracchi C., p. 11). Se prendiamo come riferimento i criteri della matematica odierna Ipazia non sarà mai una grande scienziata. E neppure una grande filosofa, a dispetto dell'indicazione di Socrate Scolastico che la mette al livello di Platone e Plotino, indicandola come colei che aveva riportato in vita questa tradizione ad Alessandria. Anche per la filosofia infatti, laddove il paradigma è l'originalità di un pensiero e l'estensione e la significatività della sua architettura al di là di ogni connessione con la pratica di vita, Ipazia non ha nulla da dire; non abbiamo neppure un suo scritto, né la minima idea dell'articolazione teorica delle sue riflessioni.

     

    Ma è interessante per la scienza e la filosofia ignorare la storia e guardare a sé stesse come discorsi univoci e atemporali, adottando tacitamente un'idea di progresso banale ed unilaterale che finisce per considerare l'alchimia la rozza sorella della più evoluta chimica, l'astrologia quella dell'astronomia e i primi filosofi come ingenui antenati dei loro più raffinati successori? E soprattutto adottare questa prospettiva nei programmi scolastici, spegnendo in fretta quella curiosità verso scintille di esperienze mai completamente dicibili che proprio lo studio, fessurando il presente e la realtà data, potrebbe invece accendere nelle  anime di ragazzi e ragazze? Non si può sostenere sia una necessità di semplificazione o brevità a condizionare il compito del divulgatore (o addirittura dell'insegnante), non possiamo infatti dimenticare di distinguere la semplicità dal riduzionismo, la sintesi dal falso storico.

     

    Che poi questo problema riguardi in modo emblematico figure femminili è vero nella misura in cui lo scarto include tutto ciò che è divenuto marginale, tutto ciò che viene escluso da un ordine simbolico egemone. Il lato sacerdotale, iniziatico, profetico di Ipazia ha fatto la stessa fine di tante filosofe tardo-antiche ricordate o meno in questo stesso articolo, per esempio Sosipatra [18]. Non c'è posto per Sosipatra nella storia della filosofia, non solo in quanto donna, ma anche perché non c'è posto per la divinazione come pratica di conoscenza. Ovviamente, se pensiamo ad oracoli e profetesse sotto il segno del superstizioso consulto del futuro, alla luce di un irrazionalismo oscurantista, non potremo mai inscriverli nell'ambito filosofico. Ugualmente, separando scienza e mito non potremo mai includere figure quali Maria l'Alchimista nella storia della scienza [19], e neppure raccontare qualcosa della scienza di Ipazia.

     

    Che poi la differenza dei generi  e la specificità dell'essere femminile portino con sé o meno il segno e la possibilità di una pratica di ricerca filosofica e scientifica peculiare, nel presente o nel passato, all'interno del  complesso intreccio tra biologia e storia, è domanda troppo astratta e complessa per rispondervi al di fuori di uno studio specifico dei singoli contesti. Anche per quanto riguarda Ipazia la questione rimane per me decisamente aperta, salvo il suo indiscutibile rappresentare, in quanto donna, la possibilità di un modello di identificazione femminile capace di mettere in discussione la vittoria schiacciante, per numeri e riconoscimenti, di modelli maschili nella nostra cultura, erede di un millenario patriarcato. Il che ha un valore irriducibile, vasto e difficilmente misurabile, visibile anche, a mio avviso, nel fascino, nei miti, nei racconti che la sua figura ha acceso nel corso della storia nel cuore e nella mente di coloro che l'hanno studiata. Studio che di fatto potrebbe portare, se non sottomesso a categorie precostituite, ad un'idea di scienza e filosofia tanto distante dall'oggi, quanto, soprattutto per il mondo contemporaneo, preziosa.

     

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    Note

    [1] Tra gli studi principali sulla sua figura si vedano i volumi di Gemma Beretta, Ipazia d’Alessandria (2014),  Maria Dielsza, Hypatia of Alexandria (1995), Silvia Ronchey, Ipazia. La vera storia (2010). Per una ricostruzione breve ma accurata si veda tra gli altri: Ipazia d’Alessandria come anello della grande tradizione filosofica greca Méter kai adelphé kai didàskale di Pedro Jesús Teruel (2012). Sulla ricostruzione della sua storia in ambito letterario e artistico si veda invece Ipazia, eroina tragica o vittima melò? Un viaggio estetico nel mito letterario dell’alessandrina di Roberto Scanu (2012). La bibliografia in merito è in ogni caso enorme, per ogni questione sollevata, di volta in volta, si daranno alcuni riferimenti specifici.

    [2] Benché le circostanze della sua morte meritino un approfondimento, non c’è spazio in questo articolo per tematizzarne l'assassinio approfondendo la vicenda di Cirillo, padre della Chiesa e santo elogiato da Papa Benedetto XVI il 3 ottobre 2007 per la «grande energia» del suo governo ecclesiastico senza nessuna menzione del massacro di Ipazia (Ronchey S., Ipazia. La vera storia, p.92). Sulla ricezione della figura della filosofa da parte della storiografia cattolica si veda Cirillo e Ipazia nella storiografia cattolica di Luciano Canfora (2010) e Ronchey S., Ipazia. La vera storia alle pp.89-96 e relativo apparato di note bibliografiche (pp. 231-237). Invece alcuni importanti contributi sulle testimonianze e le cause della sua morte: Ronchey S., Perchè Cirillo assassinò Ipazia? (2014), di Christian Lacombrade Autour du meurtre d’Hypatie (1954) e Hypatie, Synésios de Cyrene et le patriarcat alexandrin (2001), Rougé J., La politique de Cyrille d’Alexandrie et le meurtre d’Hypatie (1990).

    [3] Si veda in proposito Baracchi C., Ipazia di Alessandria: la donna e il cielo (2010) che ringrazio perché mi ha fornito con il suo contributo l'ispirazione per questo articolo.

    [4] L'idea che la filosofia antica greco-romana fosse innanzitutto una pratica di vita è stata introdotta da Pierre Hadot; si vedano in particolare Esercizi spirituali e filosofia antica (1981) e Che cos’è la filosofia antica (1995). Anche Michel Foucault negli ultimi anni della sua vita ha adottato la medesima prospettiva di ricerca, nonostante alcune differenti sottolineature su alcuni aspetti specifici, per cui si vedano L’ermeneutica del soggetto. Corso al  Collège de France (1981-1982), Il governo di sé e degli altri (1982-1983), Discorso e verità nella Grecia antica (1983), Il coraggio della verità (1984) e Tecnologie del Sé (1988).

    [5] Oltre alle opere dell'allievo Sinesio di Cirene (per cui si veda nota n.7), le principali fonti antiche su Ipazia sono: Socrate Scolastico (giurista cristiano alla corte di Costantinopoli, morto non oltre il 440 d.C.) che ne parla nel VII libro, capitolo 15 della sua Storia Ecclesiastica; Filostorgio (storico cristiano del V secolo schierato con l'arianesimo)  di cui abbiamo alcuni frammenti di una Storia Ecclesiastica pervenutici grazie alla Biblioteca di Fozio; il filosofo neoplatonico Damascio  (ultimo scolarca dell'Accademia di Atene prima della chiusura da parte di Giustiniano) di cui ci sono giunti, attraverso Fozio e Suida (intellettuale bizantino del X secolo) alcuni passi della Vita di Isidoro; un racconto di vite di letterati pagani di Esichio di Mileto (VI secolo d. C.), ancora attraverso Suida. Abbiamo poi alcuni frammenti della Cronaca dello storico di Antiochia Giovanni Malala (contemporaneo di Giustiniano). Infine un’ultima testimonianza ci è pervenuta grazie al ritrovamento di un manoscritto durante la spedizione britannica in Abissinia (1867-1868) contenente la versione etiopica della Cronaca del vescovo copto Giovanni di Nikiu del VII secolo d. C.

    [6] Di Ipazia ci restano solo commenti alle Coniche di Apollonio di Perga e all'Algebra di Diofanto, oltre ad un commento al terzo libro dell'Almagesto di Tolomeo all'interno del commento di suo padre Teone. Si veda per un approfondimento sulle opere di Ipazia, Teone ed il contesto del Museo, Beretta G., Ipazia d'Alessandria, pp. 35-75. Per le opere di Ipazia si veda anche Ronchey S., Ipazia. La vera storia, pp.149-153. Si confronti infine Alic M., L'eredità di Ipazia. Donne nella storia delle scienze dall'antichità all’Ottocento, pp. 63 e ss. É da notare come persino in questo testo, che appunto si occupa di storia della scienza in una prospettiva di genere, Ipazia figuri come seguace del razionalismo greco,  in contrapposizione alla scuola neoplatonica di Atene in cui sarebbero prevalsi aspetti del neoplatonismo legati ad un misticismo occulto. Se sono ravvisabili delle differenze fra queste due scuole, anche in riferimento al peculiare insegnamento di Ipazia, non si può tuttavia negare, come vedremo, che la dimensione mistica era nel neoplatonismo componente imprescindibile nello studio delle scienze esatte. Il fatto che tale aspetto venga trascurato nel libro di Alic dimostra la mancata volontà di riflettere criticamente sui presupposti epistemologici della nostra idea di scienza, nonostante una scelta precisa  legata al recupero di contributi femminili nella storia.

    [7] Per un inquadramento della figura di Sinesio si vedano gli studi di Lacombrade (1951) e Bregman, nonché la prefazione di Garzya A. alle opere complete. Nato probabilmente intorno  al 370 d. C. e morto nel 413, Sinesio, dopo un soggiorno di studio ad Alessandria alla scuola di Ipazia, tornò a vivere in Cirenaica dove si occupò della difesa politica e militare della sua città, svolgendo nel corso degli anni diverse mansioni diplomatiche. Nel 411, tra perplessità e reticenze, nonché prese di posizione eretiche rispetto ad alcuni dogmi, accetta di diventare vescovo di Tolemaide. Per tutta la vita, come dimostrato dall'epistolario, rimase in contatto con Ipazia di cui si considerò sempre allievo.

    [8]  Vedi Beretta G., 2014, pp.86 e ss.; Vedi anche studi di Bregman J, 1982.

    [9] Il tema del rapporto tra politica e divino filosofico, a partire dalla Lettera VII di Platone, richiederebbe una trattazione estesa e complessa che è qui impossibile anche solo delineare. Peraltro bisognerebbe considerare con attenzione, per comprendere questo aspetto, e più in generale tutta la vita e l'insegnamento di Ipazia, la situazione politico-culturale in cui visse, con la relativa contrapposizione tra elleni e cristiani fra IV e V secolo ad Alessandria, accompagnata dal tentativo sistematico dei secondi di distruggere (o assimilare, adattandola però alle proprie nuove esigenze) la cultura dei primi. Si veda su questo Momigliano A., Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV (1968).

    [10] Sul tema di un  segreto iniziatico troviamo diversi riferimenti in tutta l'opera di Sinesio. Per un'interpretazione di questo aspetto si veda Bregman, 1982.

    [11] Il tema dell'esercitare l'occhio alla vista della verità purificando la propria anima è ripreso estesamente nel libro; si veda in particolare la fine del sesto paragrafo. Non possiamo addentrarci qui nell'esegesi del passo, che richiederebbe un dettagliato approfondimento del neoplatonismo anche solo per chiarire i diversi vocaboli utilizzati, così come non possiamo dilungarci sulla traduzione ed il senso del noûs, termine perlopiù tradotto, anche in queste righe per altro, e a rischio di gravi equivoci, con pensiero. Così come non è possibile chiarire il senso dei riferimenti ad eros nei testi citati od approfondire i nessi e le stratificazioni del lessico che abbiamo definito misterico. Basti qui fare alcuni cenni per dare l'idea della necessità di avvicinarsi ad una dimensione peculiare, la quale nell'essere tradotta e spiegata, necessiterebbe un approfondimento filologico e un'attenzione epistemologica non ingenua.

    [12] Si veda l'interpretazione di questo passaggio in Beretta G., 2014, pp.92-93  e Ronchey S., 2010, p.166.

    [13] Sul rapporto tra filosofia e matematica nel neoplatonismo (non solo alessandrino) si veda Hadot I., 2005, pp. 439 e ss., da cui risulta che questi filosofi erano programmaticamente anche insegnanti di matematica e conoscitori di questa materia.

    [14] Riguardo alla proibizione della divinazione abbiamo riferimenti espliciti nel trattato di Sinesio I sogni, alle p.41 e pp. 65-66 dell’edizione 2010, a cura di Nicola Mortenz. 
      

    [15] Si veda Barb A. A., 1968. Abbiamo nelle Storie di Ammiano Marcellino diversi esempi di queste condanne e di questi roghi (XXIX, II, 26-27 o XXX, V, 11 o ancora XXIX, II, 28).

    [16] In latino mathematica, ae può significare sia matematica sia astrologia.

    [17] Per un commento a questi versi si veda Beretta G., 2014, pp.110-119.

    [18] La storia di Sosipatra è narrata in Eunapio, pp. 399 e ss.. Riguardo altre filosofe neoplatoniche in relazione al dono della profezia e alla storia di Ipazia si veda Ronchey S., 2010, pp.165-167 e Beretta G., 2014, pp.52 e ss.

    [19] Su questa figura nella storia dell'alchimia e della scienza si veda Lindsay J., 1970, pp. 249-261.

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