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Miti e immaginari nella contemporaneità / A cura di Orazio Maria Valastro / Vol.16 N.3 2018

Insularité : éthique d’une cognition synesthésique

Maria Romano

magma@analisiqualitativa.com

Laureata in sociologia all’Università degli studi di Napoli Federico II, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in pedagogia all’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa con una tesi dal titolo “Ambienti digitali e pratiche di scrittura in educazione”.


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Représentations mythodramatiques de soi
Dessin: Giada Rizzo - Lycée Artistique d'État Emilio Greco
Ateliers de l'imaginaire autobiographique © OdV Le Stelle in Tasca

Il pane appartiene alla mitologia.

Ippocrate

 

La fantasia è come la marmellata, bisogna che sia spalmata su una solida fetta di pane.

Italo Calvino

 

Il pane della civiltà

 

Fin dall’origine dei tempi, il cibo ha rappresentato un medium tra il soggetto e la dimensione sociale, politica e sacra dell’esistenza, in quanto dispositivo funzionale e significante. Divenuto oggetto di pensiero e di programmazione di attività complesse, esso assume la carica simbolica di congegno capace di connettere l’uomo con il mistero dell’esistenza (Nicolai, 2015): in questo senso, il comportamento alimentare è un importante strumento di analisi psicologica, sociale e culturale, tanto che Roland Barthes (1988) afferma che esso è in ogni luogo e in ogni epoca un atto sociale tipico della specie umana. Anche P. Bourdieu (1983), Mary Douglas (1999) e Claude Lévi-Strauss (1966) hanno indagato la funzione del cibo a partire dalla sua proprietà di “fatto sociale”: «dietro e dentro ogni azione che riguarda il cibo, è possibile scorgere e cogliere usi e costumi, politiche, simboli, modi vivendi et operandi di persone e popoli» (Mauriello, 2018).

 

Fra i diversi alimenti, quello che ha il pregio di essere cibo e simbolo in culture anche lontane fra loro è il pane. Secondo l’antropologa Cristina Papa, «il pane è il prodotto che deriva dalla lavorazione di un impasto solido e omogeneo di acqua e vegetali ridotti in farina o poltiglia, cotto attraverso l’esposizione al fuoco o altra fonte di calore, direttamente o con l’intermediazione di acqua e grassi» (Papa, 1992, p. 7). Si tratta di una definizione che non ha l’ambizione di essere universalmente valida, né di includere tutte le variegate tipologie di prodotto che nel corso della storia sono andate sotto questo nome, ma che ha certamente il pregio di orientare l’analisi di un fenomeno complesso.

 

L’archeologia di questo alimento ci narra di tecniche di panificazione già presenti nel Neolitico. Nel villaggio La Marmotta, sul lago di Bracciano, negli scavi di Castione dei Marchesi (Parma), e anche in altri luoghi del bacino del Mediterraneo sono stati rinvenuti frammenti di pane non lievitato dei quali non è possibile ricostruire con precisione la composizione e la forma (Artioli, 2011). Ma è solo con l’arte culinaria degli egizi – che Ecateo di Mileto chiama “mangiatori di pane” (Casi, 2009) – che nasce l’usanza del pane lievitato, poi diffusasi in tutto il Mediterraneo. Morbido e fragrante, il pane appena sfornato è caldo come il corpo di un neonato. La sua funzione di alimento primario, probabilmente, risiede nelle potenzialità simboliche della sua preparazione: come la birra, il pane si ottiene dalla fermentazione di semi poi bolliti o cotti al forno; oggi sappiamo che tale procedimento è paragonabile a un processo infettivo causato dal lievito, ma agli occhi degli antichi dovette apparire un fenomeno molto simile all’ingrossarsi del ventre di una donna incinta, inducendoli ad attribuire a questo alimento qualità magiche. Non è un caso che i primi fornai in Egitto erano anche ginecologi cui si rivolgevano le donne che sospettavano di avere una “ciambella in forno” (Allen, 2013). Lo stesso autore riporta che in Italia, per assicurare la buona lievitazione del pane, le donne si posizionavano strategicamente davanti al forno, digrignando i denti e simulando le doglie del parto; e ancora alla fine dell’Ottocento, le ragazze che avevano passato l’età da marito venivano condotte presso un forno del grano, dove sedevano al fine di risvegliare l’interesse di eventuali pretendenti.

 

Il pane ha assunto un ruolo centrale nella dottrina religiosa, assurgendo a congegno simbolico di “corpo di Dio” e “mensa comune”. La teologia cristiana, infatti, ha incorporato il cibo come riferimento qualificante di un contesto significativo: «la dottrina della rivelazione attesta che la condizione umana, originariamente creata a imitazione di Dio, è afflitta dal peccato patendo continuamente i dolori della carne. Il cibo, in quanto bisogno primario per la sussistenza, diviene pertanto occasione privilegiata per espiare e purificare il corpo da questa condizione di afflizione» (Meglio, 2018, p. 71). Per i cristiani il pane e il vino rappresentano il corpo e il sangue di Cristo che «si è proclamato “pane vivo disceso dal cielo”. Inoltre Gesù ha dato la sua vita come “pane spezzato per un mondo nuovo” mentre il suo sangue è stato versato per “un’alleanza nuova ed eterna”, quella, appunto, del perdono e della riconciliazione» (Scouarnec, 2000, p. 93). Gesù si è presentato come cibo spirituale per gli uomini: «come un pane e un vino capaci di comunicare a quanti lo mangiano e lo bevono nella fede la sua propria vita divina e, per il fatto che egli viene da Dio, egli allora è un dono di Dio offerto a tutti. Così l’uomo trasforma il grano in pane e poi il pane in una realtà spirituale (…) L’uomo viene invitato alla mensa di Dio il quale, da parte sua, viene a spezzare il pane con lui. Diventati corpo e sangue di Cristo, il pane e il vino non solo comunicano la vita pura e semplice, ma la vita stessa di Dio» (Scouarnec, 2000, p. 93).

 

Muovendosi fra letteratura, mitologia e storia delle religioni, Carl Jung (1979) delinea un percorso da cui la teofagia emerge come pratica radicata in diverse società umane: a proposito dei sincretismi fra religione cristiana e riti pagani, durante i culti orgiastici in onore di Dioniso, che scendeva negli inferi per poi resuscitare, i suoi fedeli ritenevano senza dubbio di fare a pezzi il dio stesso, cibandosi della sua carne e bevendo il suo sangue (Frazer, 1992). Elias Canetti descrive la comunione dei cristiani, come “pasto collettivo”, ovvero pratica di accrescimento di tipo particolare volto all’ “incorporarsi collettivo”: «nelle religioni superiori la comunione acquista un nuovo significato: l’accrescimento dei fedeli. Se la comunione resta intatta e si compie correttamente, la fede acquista sempre più terreno e sempre più seguaci. L’animale divorato cerimonialmente dai cacciatori tornerà a vivere, risorgerà e si lascerà nuovamente cacciare. Tale effetto di resurrezione diviene lo scopo essenziale delle comunioni superiori; ma, al posto dell’animale, viene divorato il corpo di un dio, e la sua resurrezione implica quella dei fedeli» (Canetti, 1981, p.137).

 

Estendendo il discorso alla dimensione più strettamente “tecnologica”, è utile rilevare come in Occidente, dove le diete si sono evolute verso un crescente utilizzo della farina e del pane, si sono perfezionate sempre di più anche le tecniche di costruzione del mulino, il macchinario atto alla sua produzione, e, fra l’altro, anch’esso “macchina” di significati. Infatti, a partire dal Settecento, l’industria molitoria fu una delle prime industrie di processo, e la prima che ricorse all’automatizzazione del lavoro. Nel XVIII la sostituzione di mulini a palmenti con quelli a cilindri d’acciaio permise di ottenere farine raffinate: il risultato fu il progressivo disuso del pane nero a favore del pane bianco (Lamberti Gardan, 2015). L’egemonia di una tradizione alimentare, dunque, si intreccia inevitabilmente con la dimensione produttiva e tecnologica, con importanti conseguenze sul piano dello sviluppo industriale ed economico del sistema.

 

La breve ricostruzione storica sull’utilizzo del pane non ha la pretesa di esaurire la descrizione di un argomento tanto complesso quanto suggestivo, che meriterebbe ulteriori ricerche in prospettiva sistemica, ma tenta di sottolineare un aspetto specifico della sociologia alimentare: la funzione simbolica del cibo e del pane, il quale può essere descritto come un vero e proprio “medium” di sussistenza e di comunicazione. Quando parliamo di cibo, dunque, ci troviamo di fronte a universi di senso e significato che, alla maniera di Alfred Schutz (1979), possiamo descrivere come “province finite di significato”, che costituiscono il perimetro, duttile e plasmabile, entro cui si compie l’esperienza umana.

 

Il pane dell’arte

 

La rappresentatività simbolica del pane si è tradotta in rappresentazione estetica: il pane, infatti, ha assunto nella storia dell’arte la valenza di cibo allegorico, diventando oggetto di riproduzioni varie e variegate. Pur nella tendenza a creare mondi impossibili, l’arte riflette le peculiarità del contesto di riferimento, attraverso un processo di “rispecchiamento” creativo che, lunghi dal configurarsi come mero realismo, è atto dove convergono istanze poietiche e semiotiche. Nel caso del pane, ciò che si è rivelato “buono da mangiare”, per citare Harris (1992),è diventato anche “buono da pensare” e conseguentemente ha trovato nell’arte – altare della sublimazione – uno spazio privilegiato dove essere e non essere ciò che è. Quello che potrebbe apparire come un gioco di parole, esplica una delle caratteristiche principali dell’arte, formalizzata da F. Crespi come forma di comunicazione ambivalente perché al contempo “sociale”e “a-sociale”: il pane dell’arte è contemporaneamente oggetto e simbolo che diventa altro da sé, facendosi portatore di un significato che in ultima analisi resta inafferrabile e inoggettivabile (Bertasio, 1998).

 

L’iconografia del pane traccia una parabola che tocca tutte le epoche, attraversando non solo l’arte sacra, dove per i riferimenti al Corpo di Cristo è oggetto privilegiato di rappresentazione, ma stili e momenti diversi. A partire dal XVI fino al XVIII secolo il pane compare nelle nature morte, genere pittorico che proprio in quel periodo conosceva rinnovata fioritura anche grazie a un nuovo interesse per l’indagine scientifica volta allo studio analitico della “realtà”. A questo proposito basti pensare alla “Natura morta con pane, salame e noci” del Pitocchetto (1750 ca.) o alla “Natura morta con pane e fichi” (1760) di Luis Meléndez. Nello stesso periodo anche il tedesco Georg Flegel e il francese Jean-Baptiste Chardin producono opere del medesimo tenore dove il pane è il (co)protagonista della rappresentazione.

 

Nell’arte contemporanea il pane inizia a essere inserito in composizioni concettualmente più complesse, fino a costituire la parte essenziale di performance e istallazioni. Con uno stile figurativo meno noto rispetto al suo tratto distintivo, P. Picasso, in un’acquaforte dal titolo “Pasto frugale”, realizzata a Parigi nel 1904, rappresenta una coppia di coniugi dinanzi ai resti della loro cena. Il tema è coerente con la vena pauperistica del Picasso prima maniera: una tovaglia sgualcita, un piatto vuoto e un tozzo di pane conferiscono alle due figure dignità poetica estrema.

 

Associando il pane al desiderio, Jean Hélion stabilisce un parallelo tra il corpo desiderato e il cibo desiderato: in “Nude with loaves” del 1952, l’artista ritrae una donna nuda di spalle, posizionata dietro a un tavolo su cui posano due filoni di pane, mentre a terra, sul tappeto dove c’è anche una vecchia scarpa maschile, giace un altro pezzo di pane. La poetica del pittore francese trova radicamento nella sua biografia: l’esperienza di prigionia di guerra, che nel 1940-2 lo costrinse ad anni di stenti e privazioni, ha probabilmente orientato la visione “sensuale” del pane e quella “alimentare” del corpo. L’importanza del pane è chiarita dallo stesso Hélion (1992) in un’annotazione personale, dove questo viene descritto come «oggetto da mangiare, segnato dalle mani degli uomini e dalle ferite; dorato come l’autunno».

 

Guardando, invece, al mondo della scultura, Claes Oldenburg nel 1962 realizza “Floor Burger”, una gigantesca scultura a forma di hamburger (tela, gommapiuma e cartone) che misura 213,4 centimetri di diametro e un metro e trentadue di altezza. Dopo l’esposizione alla Galleria Sidney Janis di New York, l’opera fu acquisita da un museo canadese, l’Art Gallery of Ontario di Toronto. Nello stesso anno, l’artista espone anche una coppia di cheeseburger in tela sagomata e dipinta a smalto, ma dalle dimensioni molto più contenute, quasi a grandezza naturale: 17,8 x 37,5 x 21,8 centimetri (Spinelli, 2017). L’estetica dell’hamburger è collocabile in quella tendenza tipica della pop art a investire dell’ “aura” artistica oggetti di uso quotidiano. Significativo in questo senso è stato il contributo di Andy Warhol. Alla domanda “Che cosa ami mangiare?” Warhol rispondeva: “Solo cibo semplice. Semplice cibo americano”. Il passo dalle parole ai fatti è breve: nel 1981 l’artista diventa il protagonista di un video in cui, con aria placida e rilassata, apre un sacchetto, estrarre un hamburger, versa sulla carta del ketchup, intinge il panino nella salsa e poi lo gusta in tutta tranquillità; alla fine, dopo aver raccolto un pezzetto di pane avanzato e il tovagliolo di carta nel sacchetto, fa una pausa (ben quarantotto secondi) e poi rompe il silenzio con l’affermazione: My name is Andy Warhol and I’ve just finished eating a hamburger (Spinelli, 2017).

 

Man Ray dipinge interamente di blu cobalto un filone di pane (1960), annullando l’idea di commestibilità del pane e sollecitando lo spettatore a riflettere su altri significati, fra questi: il pane come emblema della fecondità, l’analogia per forma tra fallo e baguette, e il blu come tinta legata alla mascolinità accostata al cielo in opposizione all’abbinamento donna/terra. Il cambio di colore, cioè la rappresentazione di un oggetto con un colore inusuale rispetto al suo, è fra le facoltà che Munari individua come indicatori della fantasia. Sulla relazione tra colore e mangiabilità, rimarcando il potere dell’incidenza cromatica sui comportamenti alimentari, l’eclettico artista milanese scrive: «un risotto blu non è riuscito a mangiarlo nessuno, anche se buonissimo» (2017, p. 68).  Nell’opera Achrome del 1962 Piero Manzoni allinea una serie di michette lombarde ricoperte di caolino: l’intenzionalità dell’artista risiede nel desiderio di proporre un modo diverso di guardare l’arte, ma anche la vita, secondo un approccio più organico, quasi “ecologico”: in questo senso, la fruizione dell’arte diventa comunione eucaristica con l’assoluto (Pautasso, 2015). Erik Dietman realizza con bastoni di pane la scritta PAIN (1967), operando una sovrapposizione fra significato e significante: una tautologia che evoca il dolore (pain in inglese) connesso alla sua mancanza. Wolf Vostell – inserendosi nel filone dell’arte come denuncia contro la società consumistica – posiziona come fossero un muro di cinta centinaia di baguette avvolte in carta da giornale attorno a una Cadillac (1973): l’accostamento alternativo mette a confronto la discrasia tra “mondo sazio” e “mondo affamato”.

 

La carrellata di opere descritte segue un approccio di ricerca apparentemente frammentario, ma che intensionalmente si inserisce nelle logiche dell’indagine scientifica sempre aperta e incompiuta. Le opere selezionate costituiscono i nodi paradigmatici di una rete di significati fatta di cibo e simboli che va espandendosi sempre di più, fino a valicare i confini dell’arte per abbracciare pratiche sociali complesse, come il food porn e il networked food, dove l’estetica della rappresentazione fotografica condivisa trova compimento. Il rapporto fra immagine e immaginario, dunque, produce uno “spazio” dove emergono peculiari fenomenologie della produzione e del consumo, dell’identità e delle relazioni: un habitat materiale e cognitivo dove si modellano, possibilità, aspettative e bisogni.

 

Il pane di Dalí

 

Il binomio arte/pane trova nel surrealismo di Salvador Dalí un’articolazione complessa dove si intrecciano, cibo, arte e vita. A sei anni Dalí voleva diventare cuoco. L’arte venne dopo, ma il desiderio infantile non fu mai dimenticato: l’ossessione per il cibo rappresenta una costante della sua pittura, nella quale i piaceri della tavola, trasfigurati e sublimati in composizioni surreali, assumono una spiccata connotazione erotica. «La mia pittura è gastronomica, spermatica, esistenziale» (Fuentes, 2004, p. 11) diceva, sintetizzando in tre aggettivi uno stile in cui simboli e sogni diventano allucinazioni di realtà parallele. L’estetica del cibo trova il massimo compimento nel libro di ricette afrodisiache “Le cene di Gala” (1973) dove Dalí, giocando con il nome della moglie, propone un menù di pietanze succulente, delizia per gli occhi e per il palato, entrée di più dolci piaceri. L’alimento che più di tutti stuzzicò la fantasia del pittore fu il pane, il tema più feticista e ossessivo del suo lavoro al quale è sempre rimasto fedele. L’idea della bontà del pane maturò presto nell’artista catalano, quando non ancora adolescente lo usava come travestimento da torero: «Tutti i miei gusti corrispondono alle idee che avevo già da bambino. Per esempio il pane che mi metto spesso sulla testa è un cappello con il quale mi presentai a casa quando avevo sei anni. Svuotai un pan de croston, questa forma di pane catalano a tre punte, e lo misi in testa per stupire i miei genitori» (Fuentes, 2004, p. 22).

 

La sua prima rappresentazione iconica è “Cestino di pane”, un dipinto a olio del 1926. Se la paternità dell’opera non fosse certa, lo si potrebbe attribuire a un pittore classico, tanto il piccolo quadro si discosta dal suo tratto: la pittura raffigura quattro pezzi di pane spalmati di burro e adagiati in un cestino posto su un panno bianco, il cui drappeggio ricorda quello dei grandi maestri barocchi. Nel 1945 il pittore realizza una seconda versione dell’opera, più matura e per certi versi più suggestiva, presentata alla mostra “Recent paintings by Salvador Dalí” che si tenne a New York nello stesso anno, un’opera spiccatamente realista, ma che non per questo appaga meno l’immaginazione.

 

Ma il realismo non basta. La sperimentazione artistica spinge Dalí su territori scivolosi: in “Pane antropomorfo – pane catalano” del 1932, un filone di pane assume chiaramente i tratti di un enorme fallo. È la bellezza commestibile: la comunione dell’arte, la sacralità del sesso. È il dogma cristiano del pane che diventa corpo. Lo stile irriverente del pittore catalano non è mera provocazione: dalla sua pittura fortemente spirituale promana una visione mondana, carnale, della religione, in cui il sentimento mistico convive con un desiderio spiccatamente sensuale.

 

Una sintesi efficace di questi elementi è rintracciabile nella versione del 1950 di “Madonna di Port Lligat” dove la Madonna, impersonata da Gala, tiene in grembo il Cristo bambino, nel cui ventre vi è un “riquadro” contenente un pezzo di pane. Sul capo della Madonna pende un uovo: altro elemento essenziale della sua pittura, simbolo della femminilità e della nascita. L’uovo e il pane coesistono nella più imponente opera di Dalí, il Teatro Museo di Figueres, la cui facciata esterna è interamente tappezzata da forme di pane triangolari e sul cui tetto troneggiano enormi uova.

 

La pittura è appagante, ma per un esteta l’arte e la vita devono coincidere. È il 12 maggio del 1958 quando, in occasione della Fiera di Parigi, Dalí sfila, accompagnato da Georges Mathieu e da una schiera di panettieri con baffi finti, per le vie della città, in testa a una processione che santifica una baguette lunga ben dodici metri, portata in spalla come fosse un Dio. Il desiderio di vivere in un’opera d’arte raggiunge l’apice nel 1971, quando Dalí chiede a Lionel Poilâne, proprietario di una nota boulangerie parigina, di costruire in pane l’arredamento di un’intera camera da letto da regalare a Gala. L’oggetto più impegnativo da realizzare fu l’armadio, alto un metro e settanta e pesante circa settanta chili (di cui trentacinque di farina): gli unici dettagli in metallo furono le cerniere delle ante; nei cassetti vennero conservate posate fatte di pane, per ogni evenienza. Degli arredi è rimasto soltanto il lampadario, custodito proprio presso la boulangerie e regolarmente rinnovato nelle parti edibili. La stanza commestibile del pittore evoca quella di marzapane della fiaba “Hänsel e Gretel” dei fratelli Grimm, dove alla povertà in cui versano i bambini si oppone l’opulenza di un’abitazione da divorare. È proprio il gusto barocco a orientare l’estetica di Dalí, il quale chiarisce come l’ossessione per il pane non fosse legata alla ricerca della semplicità: «Il mio pane ferocemente antiumanitario era il pane della vendetta del lusso immaginativo contro l’utilitarismo del razionale mondo pratico; era il pane aristocratico, estetico, paranoico, raffinato, gesuitico, fenomenale, paralizzante, ipe-evidente, che le mie mani avevano lavorato durante i due mesi a Port-Lligat» (Fuentes, 2004, p. 18).

 

Nella sua lunghissima carriera Dalí dipinse il pane in altri e numerosi modi che contribuirono a fomentare l’auspicata “rivoluzione del pane”, volta a trasformare l’elemento dell’utilità primordiale in accessorio estetico. Per lungo tempo l’eccentricità di Dalí animò gli ambienti artistici e letterari, oltre che i salotti, dove le signore della buona società parigina, incuriosite e stuzzicate dall’estetica del pane, imploravano il pittore affinché svelasse loro i segreti della sua pittura erotica e gastronomica.

 

Il pane nostro

 

L’epopea di Gilgamesh racconta del pane assaggiato da Enkidu, abituato alla caccia, e del suo effetto dirompente: «il montanaro che brucava l’erba insieme alle gazzelle e lappava il latte dalle belve feroci, restò sorpreso quando assaggiò per la prima volta il pane». L’uomo che preparò il pane era diverso dai suoi antenati: il passaggio dal chicco crudo al chicco cotto, ha condotto l’uomo alle soglie della storia (Matvejević, 2010), perché esso rappresenta un congegno simbolico e concreto capace di esercitare funzioni diverse, intrecciandosi anche con i mondi dell’arte. Al di là del surrealismo di Dalí, la presenza del pane nella storia dell’arte è una costante significativa: cibo primario e universale, la carica simbolica di cui è portatore lo ha reso oggetto privilegiato di rappresentazione. Tanti e diversi sono stati i modi in cui gli artisti hanno interpretato questo specifico “oggetto”, il cui significato, anche in funzione della sua dimensione escatologica, coincide quasi con la vita. Nella tradizione popolare occidentale, infatti, si insegna a non buttarlo via, a riutilizzarlo per pietanze a base di pane riciclato, oppure a baciarlo una volta caduto a terra e a non metterlo capovolto sulla tavola, proprio come se fosse cosa sacra.

 

L’epopea del pane si spiega alla luce del fatto che l’individuo – in quanto animal symbolicum (Cassirer, 1969) – non vive in un universo soltanto fisico, ma anche simbolico: il linguaggio, il mito, l’arte e la religione sono tecnologie che fanno parte di questo universo: sono i nodi della rete su cui poggia il divenire, e che hanno determinano un sorprendente vantaggio evolutivo dell’uomo su tutti gli altri esseri viventi. In un certo senso, dunque, le parole del Vangelo “non di solo pane vive l’uomo” (Mt 4,4), benché inserite in un discorso evidentemente orientato dal Verbo, sono portatrici di una complessità capace di cogliere la natura plurale dei bisogni dell’uomo che è, assieme, animale, artista e dio: creatura e creatore di mondi possibili e impossibili.

 

Il pane racchiude un’insondabile potenza sacra, assurgendo a medium che connette mondo sensibile e sogno, esperienza e immaginazione, tecnica e superstizione. Risultato della terra e dell’impegno dell’uomo che plasma e trasforma la materia non commestibile in prodotto finito, il pane è il simbolo della “natura” che si fa “cultura”: rito quotidiano, antico e moderno, laico e spirituale, della comunità sociale attorno alla mensa collettiva. Il pane custodisce il segreto di un’autentica religiosità profana: l’atto del mangiarne diventa preghiera quotidiana, silenziosa e sensuale, di ringraziamento. Per questa via, il pane assurge a emblema della vita, segno dell’attitudine creativa e generativa dell’uomo, ma anche della sua capacità di entrare in comunione con l’universo, attraverso quella spiritualità pragmatica che nel fenomeno estetico trova compimento.

 

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