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Sguardo e sguardi narranti / A cura di AnnaMaria Calore / Vol.19 N.2 2021

Lo schermo proiettivo e la sua demolizione

Marco Marcato

magma@analisiqualitativa.com

Laureato in psicologia, con specializzazione negli aspetti clinico-dinamici. Ha lavorato prevalentemente nel terzo settore, con la tossicodipendenza, l’autismo, la disabilità. Ha pubblicato altri articoli in riviste nazionali e contributi a libri. Si interessa prevalentemente di psicoanalisi.

 

Abstract

L’articolo vuole affrontare l’assenza odierna di uno schermo proiettivo, di una zona d’ombra, del negativo. Attraverso una perlustrazione di materiali provenienti dal cinema, dalla letteratura, dalla psicoanalisi e dalla filosofia, si vuole offrire una chiave interpretativa dell’assenza di schermo proiettivo nella società, alla luce di sguardi che si incontrano nello stesso punto, anziché di uno sguardo che non incontra l’altro nello stesso punto dal quale guarda e che, come cita il film Gli amori immaginari, è alla base dell’esperienza d’amore. Data la natura narrativa richiesta per il numero della rivista, si vuole offrire uno scorcio su un’esperienza personale che, tuttavia, ha sicuramente toccato altre persone: le nuove abitazione sono pensate per offrire ampi spazi luminosi alla zona giorno che consentono all’interno di vedere l’esterno e all’esterno di vedere l’interno senza alcun filtro, senza alcuna membrana.

 

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È possibile davvero conoscere la realtà? Dunque è possibile addentrarsi a tal punto da conoscere il reale (giacché la realtà è l’insieme di miti, riti e leggi che legano gli individui)? Ma, ancora di più, è auspicabile conoscerla davvero, poiché conoscerla significherebbe demolire quel velo opaco che ci tiene uniti? Già la parola davvero agisce come rafforzativo del sostantivo verità e lo contiene a sua volta (dav-vero). È la possibilità di conoscere il reale della realtà. Di dis-velarla. Verità-vero-velo sono legati tra loro da un filo comune. Davvero si vuole e si può compiere, senza incorrere in alcun 'sintomo', un disvelamento della realtà? Di per sé la realtà è un velo posto al reale, a quell'Uno che sarebbe impossibile da cogliere e sostenere e che si muove sulla scia del godimento, dunque della pulsione di morte, come si evince il Lacan (Moroncini, Petrillo, 2007). Questa operazione equivale a scavare sino al centro della terra per poi correre il rischio di essere bruciati nel suo nucleo. Si scoprirebbe che la bellezza della terra, visibile in superficie, non è presente nel suo centro, si scoprirebbe la noia e volontà di vivere di Schopenhauer (2009), la comicità e miseria di Tonio Kroger (Mann, 1954). E come in Tonio Kroger il mondo verrebbe liquidato, preso nella sua essenza mancherebbe di un velo opaco capace di far vivere, proiettando all’esterno, i propri contenuti interiori che possiedono una forza simbolica tale da aver dato vita a miti e riti che hanno guidato l’umanità sino ad oggi.

 

Dunque si morirebbe poiché, al fondo, è presente Dio e Dio è il buco nella serratura (Sartre, 1984), è lo spazio bianco tra le parole della Bibbia. Dio è il disvelamento, la verità ultima, realtà assoluta citata da Bion (Grotstein, 2009), è quell’Uno della teologia negativa che, al fondo di tutto, scopre la sua stessa negazione. Poiché esso è un atto costate di creazione, ed essa non è un momento storico dal quale si procede ma un continuo divenire. È il nulla e dunque è tutto poiché dal nulla si genera e al nulla si ritorna in un gesto incessante di eterna creazione. Anche per Ekhart la creazione è una eterna creazione, una creazione costante a partire dal nulla. E come potrebbe l'uomo sopportare il nulla? Ai lati estremi della medaglia troviamo la psicosi, ossia un ritorno del reale, descritta dalle parole di una serie tv intitolata ‘the excorcism’ che si avvicinano a quelle di Mikownski (1998): è un cadere eterno in una stanza che non ha luce né buio né pareti né andare dei giorni (Slater, 2016).

 

Nel libro di Stefan Zweig Novella degli scacchi (2014), uno dei personaggi, chiamato signor B. e definito come l’Ignoto, racconta la sua esperienza con i nazisti. Egli dice di essere stato portato in una stanza d’albergo, da lui i nazisti si aspettavano rivelasse informazioni segrete delle quali credevano fosse in possesso in quanto affidatario dei beni di alcuni monasteri e monarchi austriaci. Dunque lo portarono in una stanza d’albergo, con le sbarre alle finestre, e ciò che in apparenza poteva sembrare un trattamento amichevole si rivelò la più spietata delle torture: nessuno poteva parlare con lui, non udiva alcuna voce, lui non poteva uscire dalla stanza, dalla finestra non si vedeva nulla se non un muro bianco e all’interno della stanza non si poteva né scrivere, né disegnare, né leggere. Tutto ciò che era presente era il letto, il bagno e un tavolo con la sedia. Per sopravvivere, prima di venire soffocato dal nulla eterno e dai suoi pensieri, riuscì a rubare un libro, una guida degli scacchi che imparò a memoria. Cominciò dunque a giocare delle partite immaginarie, dopo che il libro divenne anch’esso stantio in quanto letto e riletto. Non avendo la scacchiera, e non avendo alcuno contro cui giocare, per non soccombere al nulla della sua stanza, si sforzò di giocare contro sé stesso, autoproducendo una sorta di scissione e fino alla pazzia e al delirio che poi lo condussero in ospedale.

 

Scrive: Insomma, a farla breve, per mesi ho cercato di realizzare questa assurdità nella mia disperazione. Ma non avevo altra scelta che questo controsenso, per non soccombere alla pura follia o a un completo marasma spirituale. Ero costretto dalla mia terribile situazione a tentare perlomeno questa scissione fra un Io nero e un Io bianco, per non essere soffocato dallo spaventevole nulla che mi circondava (Zweig, 2014, p. 30).

 

Questo passo restituisce una chiara idea di come, per l’uomo, sia impossibile sopportare il nulla, di come una scissione originaria, quella risalente al peccato originale (tra vita e morte[1]), sia di fondamentale importanza per poter vivere. Inoltre, questo passo porta ad una ulteriore considerazione. Come sostenne la filosofa Pulcini non esistono individui ma solo relazioni (Raparelli, 2021). Non esiste dunque un Io unitario, solido, una identità statutaria, ma solo dinamiche relazionali all’interno delle quali si sviluppa una identità. L’identità è la posizione che si assume all’interno di una relazione, e questo vale anche quando l’individuo giace solo. Al nostro interno sono presenti oggetti (ossia altri interiorizzati) che continuamente agiscono in noi, anche e soprattutto in modo inconscio. Il nostro Io, in fondo, è la posizione che assume nei confronti di questo piccolo popolo che ci abita (Pirandello, 2014).

 

Sartre ebbe modo di scrivere che ognuno di noi gioca a fare il teatrante e che necessita dell’altro per confermare la propria identità. Pur non accettando il fatto che per Sartre l’uomo è nulla ed è solo quale egli si sarà fatto, poiché convinti che esista una matrice fondante l’uomo in senso ontologico, è comunque chiaro che quella matrice è e rimane inafferrabile poiché essa si è il nulla e dunque è il tutto e come tale è inafferrabile a pieno e può essere colta solo all’interno di uno spazio relazionale, in un gioco continuo di rimandi all’altro (proiezione) e di riappropriazione (ritiro della proiezione). Ma se manca una membrana tra sé e l’altro, uno spazio entro cui proiettare per poi riappropriarsi della verità, allora non possono esistere le relazioni. Ed è questo il punto centrale che fonda la società individualistica, consumistica ed omologatrice del nostro tempo, che vuole ipostatizzare l’io come baluardo inespugnabile. E se l’altro non è più disponibile anche come schermo proiettivo è chiaro, seguendo il pensiero di Sartre, che non potrà più esserci certezza e dialettica della propria identità, ed è in questo che ritroviamo la fragilità narcisistica e la necessità di verticalità, di astrazione in fantasia di grandiosità, in modo da ricreare onnipotentemente una conferma di se stessi che escluda l’altro ma che sarà sempre frustrata dall’incontro con la realtà che spinge ad una complessità maggiore oltre la scissione.

 

È altresì evidente che non si vuole accusare la scissione in sé, per cui si è avanzata l’ipotesi che possa essere comunque un dato originario necessario alla stessa vita, la questione è semmai il punto nel quale questa scissione arriva ad essere eccessivamente rigida, profonda ed estesa. Seguendo il pensiero Kleiniano e quello Bioniano, non esiste mai un completo superamento della scissione, ma piuttosto una posizione che si conquista e che si lascia di volta in volta in un andare dialettico passando da scissione a congiunzione degli opposti e viceversa. Oggi però si assiste ad un arresto alla scissione che, non trovando uno schermo sul quale proiettare e, attraverso la relazione, ritirare la proiezione, tende alla forclusione, dunque all’espulsione totale da sé dell’ombra.

 

Dall'altro lato della medaglia, incontriamo la personalità psicosomatica descritta da Pierre Marty e McDougall come un iper adattamento alla realtà e dunque come normopatici, antianalizzandi e, in sostanza, robot che sembrano aver perso la qualità umana (McDougall, 1996).

 

In entrambi i casi, psicosi e psicosomatica, che sono assimilabili alle caratteristiche fisiche del vapore e del giacchio, assistiamo alla mancata capacità di possedere uno schermo protettivo, una membrana di passaggio: nel primo caso la membrana è totalmente assente, nel secondo caso essa è scarsamente porosa e non permette il lavoro del preconscio e dell’immaginario. Come ha sostenuto McDougall, non esiste poi una grande differenza tra questi due volti, accomunati per l’essere una malattia arcaica dell’io, come l’ha definita Gunter Ammon (2001), ossia risalente a quel periodo storico dello sviluppo ontogenetico di ciascuno nel quale si sviluppa una membrana, una pelle psichica, che consente il passaggio dall’interno all’esterno. Tuttavia, questa dinamica impedisce di essere totalmente all’interno (il caso della psicosi) o totalmente all’esterno (il caso della psicosomatica), ma di sostare in quella zona d’ombra che è lo spazio in between, su cui molto ha lavorato Roberto Albarea (2014) come necessità di far fronte alla complessità odierna costruita attorno alle antinomie del vivere. È uno spazio dialettico, che tiene assieme gli opposti e lo fa a partire dalla sicurezza che non v’è certezza ma solo zone d’ombra che si rischiarano in un continuo divenire dell’essere. Un’idea della membrana porosa di cui si sta parlando è data dall’estetica del film di David Fincher Gone girl (2014). In esso sono visibili degli spazi esterni luminosi ed areati contrapposti a degli spazi interni molto più cupi e con tonalità tendenti al grigio.

 

Una zona di passaggio tra l’esterno e l’interno, che non sempre coincide l’una con l’altra, ma che dialogano assieme. Contrapposta a questo vi è l’estetica del film Dogville di Lars Von Trier (2003) che si presenta come una sorta di laboratorio dell’animo umano e dei suoi lati più oscuri, ponendo una domanda fondamentale: non saremo, forse, tutti noi in grado di approfittare dell’altro, quando ne notiamo la fragilità e quando questa possa esserci utile? Non è questo, tuttavia, il punto al quale si vuole giungere, ma piuttosto ci si sofferma solo sulla chiave scenografica del film che ritrae un villaggio ove ciascuna abitazione non possiede pareti, ma viene segnata come una piantina che consente allo spettatore una visione perfettamente trasparente. Soffermandosi un ulteriore momento sulla scena inziale del film Gone Girl, si può assistere ad un protagonista (interpretato da Ben Affleck) che, attraverso una inquadratura soggettiva, si sofferma con lo sguardo sulla nuca della compagna e afferma quanto sarebbe bello poter aprirle la testa e poter srotolare la matassa cerebrale per sapere quel che pensa, quel che sente. È questa l’idea, oggi insopportabile a causa di una scissione eccessivamente rigida, della possibilità che l’altro non sia mai del tutto afferrabile, di non poterlo conoscere e, in fondo, se si potesse davvero conoscere totalmente della completa insussistenza del fatto.

 

Due esempi potranno essere utili a chiarire questo fatto che, all’inizio, era stato declinato nell’idea del tutto come completo nulla. Se dunque si arrivasse a conoscere il tutto, si arriverebbe al nulla più completo. Ceylan è un regista turco, vincitore della palma d’oro, che può aiutare a comprendere questo concetto paradossale, attraverso uno dei suoi lavori dal titolo c’era una volta in anatolia (2011). Una piccola premessa sui suoi lavori, colto dallo sguardo dello scrivente, è la presenza costante di un segreto, di un qualcosa di inconoscibile, che forse possedevano i protagonisti in un tempo andato, forse poi rimosso, forse saputo ma comunque taciuto. Non è certo intenzione del regista rivelarlo, né tantomeno riuscirà a farlo lo spettatore. Uno di questi segreti è presente anche nella scena finale del film: l’assistente del medico legale sta per eseguire una autopsia, arrivato ad ispezionare la trachea scopre nella vittima dell’omicidio un poco di terra, il ragionamento logico-deduttivo lo porta a concludere che egli sia stato seppellito vivo. Il medico, tuttavia, decide di procedere comunque alla autopsia sostenendo «è necessario farlo». Mentre l’assistente prosegue nell’autopsia, il medico osserva il paesaggio godibile dalla finestra con aria assorta. Durante tutto il film non è possibile sapere il motivo di quel brutale omicidio, e quando uno degli assassini tenta di rivelare qualche cosa, l’altro lo zittisce.

 

Si possono certo intuire alcune trame recondite dietro l’omicidio ma sono solo suggestioni, che comunque alimentano l’immaginazione e si muovono sulla scia del principio del piacere proprio per la zona d’ombra offerta dal segreto. Appare chiaro che il dottore si stia interrogando sul motivo della morte, che anche quando è chiaro che l’uomo è stato sepolto ancora vivo, e sono dunque chiare le dinamiche dell’omicidio (gli aspetti tecnici), altrettanto chiari non sono gli aspetti profondi che hanno portato all’uccisione, il perché, le movenze dell’anima degli assassini. Ed a questi ultimi che il dottore vorrebbe dare una risposta, ma non sarà il sezionare un corpo che glieli potrà offrire. Questo interessante spezzone offre un parallelismo con un libro di Antonio Trabucchi Notturno Indiano (1984): nel libro si racconta la storia della ricerca di sé attraverso un viaggio in India e degli incontri tra il filosofico e il grottesco che il viaggio offre alla voce narrante. In uno di questi incontri la voce narrante, il protagonista, si avvicina ad un medico dell’ospedale di Bombay, un cardiologo che, parafrasandolo, rivela di aver voluto studiare il cuore per incontrare il segreto della vita e poi essersi ritrovato ad operarli e, una volta aperti, non v’ha trovato nulla.

 

La 'normalità' è nel mezzo, non nel vapore né nel ghiaccio ma nell'acqua che è simbolo di vita, di creazione eterna. Questa creazione si avvale allora di una proiezione, ossia di uno schermo oscuro che ci impedisce di cogliere la realtà nel suo aspetto reale (vero), e ci consegna ad un dubbio dal quale procede la dialettica della vita. Se questo dubbio non esistesse, se non avessimo la certezza che non v'è c'è certezza che il mondo appartiene solo agli occhi di chi guarda (come sostengono i pre-socratici) allora non potremmo giocare con la vita. La vita dunque cos'è, se non il gioco tra sguardi? Tra l'essere guardato ed un guardare che mai s'incrociano nello stesso punto? E cosa sarebbe l'amore? Come recita la poesia del film Les amour imaginaires di Xavier Dolan (2010).

 

Innamorato, quando chiedo uno sguardo,

quello che è profondamente insoddisfacente e sempre futile

è che non guardi mai a me da dove io guardo te.

 

È proprio questa zona d’ombra tra i due sguardi a generare la ricchezza dell’amore, poiché esso si genera dalla presenza di una frustrazione, di una mancanza. Certo, il rischio è quello di essere intrappolati all’interno di un mondo illusorio, immaginario, basato interamente sulla proiezione e sull’esclusione dell’altro. L’immaginario è sempre mieloso e seduttivo ma intrappola. Per evitare questa conseguenza è pur sempre necessario assistere al doppio movimento di proiezione e ritiro della proiezione, che è possibile solo se ci si mantiene aperti all’altro, se si impara a sostare nella relazione e ad accogliere il negativo (dunque possedere un’occhiale dialettico e dualistico con cui guardare alla vita e a sé stessi, ponendo il dubbio piuttosto che ricavare certezze).

 

Tuttavia, se non esistesse questa dialettica che nasce dalla frustrazione e procede in un gioco di proiezioni reciproche, se si fosse gettati all’interno della realtà ultima, verità assoluta in modo diretto e senza poterla velare, si potrebbe scoprire che la vita è la morte e dunque non si riuscirebbe più a vivere, giacché questa è garantita a partire da una rimozione fondamentale: quella della morte. Una scissione originale, tra vita e morte, che consente l’una a partire dalla rimozione dell’altra. È sufficiente, a tal fine, osservare l’anarchia e la disperazione prodotte nel film Dio esiste e vive a Bruxelles (Dormael, 2015), ove la figlia di Dio, per offendere il padre, restituisce agli uomini la coscienza del proprio morire. In uno scritto di Aldo Magris intitolato Il mito del giardino di Eden (2008), egli affronta questa tematica risalendo le origini del mito cristiano del peccato originale. Sostenendo che le origini di questo mito, ossia del giardino dell’Eden, siano da rintracciarsi in racconti più arcaici poi uniti assieme nello scritto biblico, e offrendo numerosi collegamenti con altri racconti mitologici, afferma che Adamo ed Eva non erano alla ricerca della conoscenza del bene e del male, e dunque non fosse questo ad unirli e a renderli come Dio, ma piuttosto la ricerca del segreto della vita e della morte, ossia di quel tutto che unisce e che solo Dio riesce a tenere assieme. Un’impossibilità per l’uomo di arrivare davvero a comprendere l’unione della vita e della morte, ma di poter affrontare la prima solo a partire dalla negazione della seconda. D’altronde, come sostiene Jung, la vita psichica si comporta come se la morte non esistesse e i sogni evidenziano che essa continui a muoversi e a progettare come se non ci fosse una data ultima posta all’esistenza di ciascuno.

 

 Per la vita stessa occorre sapere e dunque dimenticare, occorre il negativo, l'oblio e dunque la proiezione, che è la parte dimenticata di ciascuno, rimossa, che ci lega ad altri, agli oggetti, e che muove la vita alla ricerca di quella parte perduta. Che rende possibile amare ed anche odiare, che rende il sempre che fugge e che mai, a differenza di Kroger, permette di liquidare il mondo. Ecco perché la terapia, per esempio, permette un migliore adattamento alla realtà, non un completo adattamento, e perché i meccanismi di difesa maturi comunque continuino a distorcere la realtà, ma è una distorsione minore e più produttiva poiché alimenta la dialettica della vita, dunque le relazioni (con sé stessi o con gli altri) e lo sviluppo umano che, in definitiva, è un gioco di sguardi che mai si incontrano nello stesso punto. Si potrebbe dire che ognuno di noi guarda ma non vede poiché se vedesse non sarebbe più interessato. In questo senso è possibile cogliere l’affermazione junghiana per cui la proiezione è vita.

 

Se ora si sposta lo sguardo alla nostra società, allo scrivente pare di cogliere una caratteristica di alcuni dei nuovi spazi architettonici e delle nuove abitazioni. È possibile notare, e si vuole invitare a farlo, di come negli ultimi anni le abitazioni di nuova costruzione presentino delle ampie vetrate, senza scuri o persiane, e queste siano poste ad illuminare la zona soggiorno dell’abitazione.

 

Dato che la call per questo articolo ha richiesto uno sguardo di tipo narrativo, si ha piacere di condividere un’esperienza personale dello scrivente dalla quale si vuole procedere nel tentativo di far cogliere l’importanza di uno schermo proiettivo e delle possibili conseguenze che oggi si incontrano a causa della sua demolizione.

 

Una sera passeggiando lungo un argine di uno nei numerosi fiumi che costeggiano la città, mi sono fermato in una zona in piena campagna dalla quale potevo scorgere alcuni promontori dei colli euganei e alcune abitazione in lontananza. L’emozione che questo momento di solitudine ha prodotto in me, ha portato ad un lavorio del preconscio che ha sollevato alla mia coscienza numerose immagini rispetto a ciò che in quegli scorci abitativi poteva svolgersi. D’altronde questa natura voyeristica dell’uomo è stata abbondantemente esplorata dai lavori cinematografici di Hitchcock, e non sorprende dunque che la curiosità di sapere cosa accade oltre una finestra possa essere parte di ciascuno di noi. La mia immaginazione ha prodotto delle immagini che si sono susseguite e legate assieme nella mia coscienza fino al punto da produrre un piccolo racconto su cosa stesse accadendo nelle abitazioni altrui. Chiaramente non è possibile sapere con certezza cosa li vi fosse, e credo fosse questa impossibilità, questa mancanza, a permettere di alimentare l’immaginazione. Alla fine, lungo la strada del ritorno, ricordo che le storie che ebbi inventato produssero in me un sentimento di tranquillità e una certa energia rinnovata. D’altronde, già a partire dagli studi di Bachelard (2008) sull’immaginazione, è abbastanza chiaro che essa è il luogo dell’anima, il luogo ove la vita trae la sua forza e si riproduce. Uno spazio di libertà incondizionata che, tuttavia, non è del tutto slegata dalla realtà: dagli studi di Bion è evidente che l’immaginazione proceda a partire da una elaborazione di proto-emozioni di natura fisica. Sensazioni del corpo poi rielaborate in fantasia attraverso la funzione alfa.

 

Ad ogni modo, l’immaginazione è una zona di confine, una zona d’ombra dove gli elementi fisici (elaborazioni corporee degli stimoli esterni al nome di sensazioni) che l’hanno prodotta non sono del tutto chiari, e non sono nemmeno chiari i contenuti interiori che essa esprime, che seppur non del tutto inconsci ma preconsci, non sono nemmeno coscienti.

 

Per Bachelard l’immaginazione è il luogo della quiete dell’anima, da un lato essa permette di scaricare alcuni contenuti e dall’altro permette un recupero energetico. Per questo motivo egli accusa la psicoanalisi di aggredire eccessivamente i contenuti attraverso le interpretazioni che provengono da un atteggiamento ‘maschile’, dettato dall’Animus che vuole comprendere, srotolare la matassa ed arrivare alla causa, alla spiegazione seguendo un’impostazione di tipo logico-deduttiva e scientifica, mentre è più tipico dell’Anima cogliere l’essenza e viverla lasciandosi guidare da essa. Una piccola parentesi appare qui importante. André Breton, nel testo Nadja (2007), scrive che la psicoanalisi, in realtà, attraverso le sue interpretazioni, crea ulteriori zone d’ombra. Quest’ultimo pensiero appare più in linea con ciò che precedentemente si tentava di esprimere affermando che la terapia opera verso un migliore adattamento alla realtà che, tuttavia, non è un suo completo adattamento. La zona di confine è la membrana porosa e oscura che si sta tentando di descrivere, a cui è stato dato il nome di schermo proiettivo, quella zona nella quale si avvia un dialogo tra interno ed esterno in un gioco di sguardi che permette di espellere certi contenuti e poi di riappropriarsene in un gioco costate e dialettico che è il gioco delle relazioni con sé e con l’altro, di cui anche l’amore si nutre e la cui verità non potrà mai essere colta ma si potrà solo rilanciare nuovamente ad un altro, in tal senso anche l’opera psicoanalitica crea nuove zone d’ombra che rimandano sempre ad un altrove attivando un dialogo con sé stessi che mentre recupera parti di sé, spinge alla consapevolezza di un ancora non visto ed oscuro che mai sarà in piena luce.

 

In tal senso, sembra possibile trovare posto alle teorie psicoanalitiche del campo, post-bioniane, e alla posizione di oggetto-piccolo-a che il terapeuta assume. Il terapeuta non si fa mai trovare nello stesso punto nel quale l’altro crede di coglierlo, ed è proprio così che si attivano le dinamiche transferali che come definisce Lacan appaiono sovrapponibili all’amore.

 

Nella teoria del campo proposta da Antonino Ferro (1999), e nella modalità suggerita da Nevio del Longo (2018), assume rilevanza proprio la qualità dell’immaginazione, luogo nel quale poter cogliere gli elementi β e nel quale offrire ad essi una elaborazione in un continuo andare. La teoria del campo vuole che lo spazio terapeutico del setting, sia un campo di forze ove si incontra e si scontra l’inconscio del terapeuta e quello del paziente e sia possibile nel qui ed ora della terapia, nell’incastro relazionale tra terapeuta e paziente, elaborare e restituire rendendo coscienti gli elementi β. Non esattamente essi, in quanto per definizione inconoscibili (sovrapponibili al noumeno kantiano), ma piuttosto restituendo al paziente la sua verità, che tuttavia non sarà mai colta a pieno. Un aneddoto su Bion racconta che quando un paziente gli chiedesse di ripetere una sua interpretazione egli solesse dire “mi scusi, ormai è troppo tardi” (Grotstein , 2009). In questo si evidenzia proprio la posizione che favorisce il prodursi di uno schermo proiettivo e di zone d’ombra piuttosto che una modalità che metta in luce i contenuti inconsci afferrandoli e ipostatizzandoli come dati di fatto. Non a caso il titolo del libro su Bion, proposto da Grotstein è Un raggio di intensa oscurità. Ciò a cui ci si affida è all’andare della rêverie, e dunque di contenuti preconsci. Spesso l’invito al paziente è quello di affrontare la situazione del setting come fosse un sogno.

 

Si ritorna ora all’esperienza personale presentata. Ritornato a casa da quella passeggiata in aperta campagna, noto la costruzione di nuove villette e noto altresì la presenza di ampie vetrate, senza scuri o persiane, che lasciano grande trasparenza sulla zona giorno della casa, visibile tanto dall’esterno verso l’interno, quanto dall’interno verso l’esterno, dunque senza quello schermo proiettivo che renda possibile il lavoro dell’immaginazione. Chiaramente non è possibile immaginare cosa accada al suo interno poiché ciò che accade è immediatamente visibile senza alcun filtro. Si vedono i volti, i riti famigliari, se ne colgono i movimenti e ciò che prima era oscuro nell’intimo di una casa, ora è presentato come pienamente e immediatamente visibile. Della trasparenza si fa ampio uso ed è da questo punto che si vuole continuare, evidenziando, come Hillmann (2009) ebbe a dire, che non siamo noi a possedere una psiche ma siamo noi ad essere immersi nella psiche. Dunque anche le espressioni artistiche, incluse quelle architettoniche, possono renderci una idea di dove si stia muovendo l’inconscio collettivo, la società e le sue conseguenze. Quello che si tenta di evidenziare è la perdita di uno schermo proiettivo, in nome della trasparenza e le sue possibili conseguenze. Ossia una società dove l’amore non possa essere garantito, essendo che esso si nutre proprio di quelle zone d’ombra dove gli sguardi non si intrecciano mai nello stesso punto.

 

Ove l’anima rischia di bruciarsi poiché esposta al sole, come sostiene Han (2014) e dove, a seguito di questa enorme esposizione, si alimentano sentimenti di vergogna, insicurezza, paura, che sono alla base del narcisismo della società attuale (Charmet, 2018). Sembra non essere più possibile ritirarsi nel proprio ufficio e dedicarsi a pratiche bizzarre come quelle descritte nel racconto pirandelliano la carriola (Pirandello, 1995), poiché si rischia di essere colti dallo sguardo del pubblico che oggi sembra incontrare l’altro nello stesso punto nel quale si è. È la scomparsa dell’Altro, il ritorno al reale, l’impossibilità del simbolico. Cabibbe (2020), afferma come la nostra società sia una società della chiacchiera poiché la parola è divenuta lettera, la comunicazione si nutre del simbolico e dunque della capacità di tenere assieme in modo dinamico e dialettico gli opposti. È la parola che diviene termine freddo e scientifico. Spostando lo sguardo alla società vediamo una politica che sempre più confluisce nella tecnica. Ci si affida al dato ipostatizzato, tecnico e scientifico preso nella sua nuda verità e ci poi ci si sorprende qualora esso non sia esatto. La scienza conserva sempre un margine d’errore nelle elaborazioni statistiche chiamato errore alfa ed errore beta. È il ‘ non so’ del quale Gad Lerner, in un’intervista ad otto e mezzo ha detto di fidarsi. Ma oggi questo non sembra possibile poiché sarebbe necessaria una mente in grado di tenere assieme gli opposti e il paradosso. Che sia in grado di quella flessibilità tale da garantire la possibilità di rivedere sé stessa con capacità critica, al negativo. Oddo afferma che la nostra società sia una società scissa, ed è la scissione che poi sta alla base tanto della natura psicotica (una scissione bene/male che si riflette in uno spacchettamento dell’ipseità e, dunque, in una identità non in grado di narrarsi a partire dal proprio Io), quanto della natura psicosomatica (tra mente e corpo che si riflette in un linguaggio concreto e non metaforico tanto del soggetto quanto del sintomo) di cui abbiamo accennato.

 

Entrambe queste caratteristiche sembrano essere presenti nella nostra società. Ne sono testimonianza il movimento no vax, il movimento dei gilet arancioni, tanto quanto la politica diventata scienza tecnica non più in grado di muovere le anime ma solo capace di riferirsi ai corpi, alla fredda terra da sfruttare. Questi elementi si riflettono poi anche nel settore dal quale lo scrivente proviene, ossia la clinica: un articolo di Stanghellini (2018) ha brillantemente individuato come la psichiatria, nata come costola dalla neurologia, proprio per essere onnicomprensiva tanto del sintomo quanto del vissuto, e tenere assieme tanto il tecnico quanto il teoretico, abbia perduto sé stessa concretizzandosi nel segno (oggetto visibile del comportamento) e sintomo (vissuto soggettivo inquadrabile in terminologie condivise). Sembra essere presente, quindi, una scissione, e come tale essa evita lo scontro con il negativo e impone un tutto pieno, un tutto positivo, come rifugio onnipotente. È il tutto immediatamente visibile, senza alcuna ombra, di cui le nuove abitazione sono espressione di una tendenza collettiva. Non esiste uno schermo dove poter proiettare e con cui poi instaurare una relazione (che sia con l’altro o con sé stessi) per poter riappropriarsi di ciò che è stato proiettato. La conseguenza è dunque l’assenza della consapevolezza di essere in molti, verso una presunta supremazia dell’Io che rende il corpo carne consumabile, come lo è l’idea di essere lavoratori e quindi ‘risorse’ per il mercato.

 

Se gli sguardi si incontrassero sempre, poiché tutti gli spazi (da quelli politici a quelli abitativi) sono organizzati per garantire la massima trasparenza possibile, quale ne sarebbe la conseguenza? Si presume che la conseguenza più importante ricadrebbe all’interno della capacità di amare, e avrebbe come conseguenza una importante iniezione di noia e miseria, che sono le stesse conseguenze che hanno incontrato, da un lato, Tonio Kroger, e dall’altro Olle Montanus nel libro La stanza Rossa di Strindberg (1985). Entrambi questi personaggi sembrano accedere ad una sorta di verità ultima, di reale, quasi a togliere il velo di maya e scoprono che al fondo non v’è nulla. O meglio v’è tutto, vi è esattamente quel che vi è, quel che doveva esserci ma distante da quel pieno che immaginavano. Incontrano la noia, incontrano l’impossibilità di comprendere a pieno quel fondo, incontrano la comicità e la miseria.

 

Tutto ciò che immaginavano di poter trovare era, in fondo, una loro proiezione che riempiva quello spazio ancora vuoto. Eppure era questa che rendeva accettabile il mondo e la separazione originaria, la frattura che rende possibile l’angoscia (come sostiene l’esistenzialismo). Tutto lo sforzo umano consiste nel tentativo di sopperire a questa angoscia, a questa frattura originaria e ricercarne un senso. In parte è questo che ha creato la bellezza che chiamiamo arte. Dunque, se vedessimo tutto esattamente per ciò che è, se incrociassimo l’altro con lo sguardo nello stesso nostro punto, come la nostra società cerca di fare animata dal principio di trasparenza, finiremmo per impedire l’amore. Sarebbe la noia del vivere poiché la vita si nutre della distanza, di uno scarto e di una certa impossibilità. L’alternativa sarebbe la psicosi (una fusionalità estrema senza confini e senza identità), oppure la presenza del solo corpo materiale (con una adesione perfetta alla realtà, senza creatività). Nel mezzo vi è una zona di inesplorabilità che rende possibile la relazione e la scoperta di sé stessi e dell’altro. Per questo le zone d’ombra devono essere preservate, ma sempre in uno sguardo dialettico di proiezione - ritiro della proiezione che si sviluppa nelle relazioni e nel dialogo con sé stessi, che, ancora una volta, sono possibili solo a partire da un certo scarto. Non è pensabile poter dialogare con sé stessi se non posizionandosi in modo eccentrico rispetto al proprio centro, conservando una zona d’ombra con cui essere costantemente in dialogo, senza presumere di essere un Io od un Uno, tutto pieno e tutto visibile (all’altro e a sé stessi). È l’errore che rende amabili (Goethe, 2013).

 

Bibliografia

 

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Aldo Magris, Il mito del giardino di Eden, Morcelliana: Brescia (MI), 2008.

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Note

 

[1] Questa considerazione sulla vita e sulla morte (e non tra il bene e il male) relativa al peccato originale risale al testo di Aldo Magris, Il mito del giardino di Eden, Morcelliana: Brescia (MI), 2008.

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