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Sguardo e sguardi narranti / A cura di AnnaMaria Calore / Vol.19 N.2 2021

Uno scambio quotidiano di sguardi tra Io e Altro *

Benedetta Turco

magma@analisiqualitativa.com

Sociologa, Sapienza Università di Roma, nel 2021 conclude il dottorato in Teoria e Ricerca Educativa e Sociale, curriculum Ricerca Sociale teorica e applicata, presso l’Università di Roma Tre. La sua ricerca, Il mondo dentro casa. Studio sull’accoglienza domestica nella realtà ostile delle inerzie1, verte sull’accoglienza dei migranti nata da una contestazione sociale della cittadinanza. È cultrice della materia in Storia del pensiero sociologico, Sociologia generale e Sociologia economica e dello sviluppo. È stata relatrice in convegni internazionali come IMISCOE Conference 2019 per International migrantio, integration and social cohesion presso l’Università di Mälmo e Mesa Redonda València-Roma presso l’Università di Valencia. Iscritta al master interuniversitario di II livello Sociologia: Teoria, Metodologia, Ricerca. Nel periodo 2015-2016, ha partecipato ad un tirocinio presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irpps).

 

Abstract

L’essere umano è immerso nel mondo, nella realtà umana costantemente in relazione e il suo sguardo è inevitabilmente sugli oggetti, sui fatti, sull’Altro. In un’ottica fenomenologica- esistenziale l’Altro è colui che mi costituisce e che io costituisco attraverso lo sguardo. È ciò che emerge nella mia ricerca sull’accoglienza domestica mediante la quale, con la raccolta di 74 storie di vita, analizzo il fenomeno della mobilità e il tentativo di questi esseri umani di inserirsi in un nuovo contesto.

 

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Uno sguardo nel mondo dell’accoglienza domestica

 

«L’umanità», scrive Romain Gary nel suo romanzo La vita davanti a sé, «non è una virgola perché quando Madame Rosa mi guarda con i suoi occhi ebrei, non è una virgola è, anzi, il grande libro tutto quanto e io non la voglio vedere»[1]. Con questa frase lo scrittore è in grado di far comprendere al lettore il senso di uno sguardo, tutto il peso che porta con sé quel fardello che disturba il nostro io che entra in relazione con la coscienza irriflessa che è coscienza del mondo[2].

 

È Jean-Paul Sartre a dare un punto di vista che prende forma nella consapevolezza che l’identità non è intrinseca in noi ma nasce dallo sguardo degli altri; che le nostre riflessioni non si concretizzano in autonomia ma derivano dall’essere-in-situazione, dall’essere parte della realtà globale. In L’essere e il nulla il filosofo francese sottolinea come la vergogna possa essere un elemento che permette al singolo di riconoscersi come oggetto che gli altri guardano con uno sguardo giudicante che diventa quel personale specchio che rivela «chi sono».

 

Ma quale sguardo potrebbe essere così cristallizzante da rendere tale riflesso inaccettabile? Cosa può spingerci a re-agire? Quali occhi ci ricordano che siamo responsabili del mondo in cui viviamo?

 

[…] le persone che si collocano sul versante solidale della storia hanno preso una decisione legata al fatto che anche in prima persona ci si assume la responsabilità del mondo in cui si vive! Anche per non essere poi tacciabili dai propri figli o nipoti con domande del tipo: ma tu dov'eri quando succedeva tutto questo? (Rossano – Farsi Prossimo)

 

Le parole di Rossano ci introducono nell’ambito dell’accoglienza domestica dei migranti. È da anni che, come tanti altri, collabora con le realtà sociali in un’ottica di apertura verso chi è relegato ai margini della società e soprattutto dal 2015, a seguito dell’incremento della mobilità umana periferica e dei tentativi di chiusura e respingimento dell’Europa, sono state create forme alternative di ospitalità su tutto il territorio italiano.

 

Già nel 2008 la città di Torino, inserita all’interno del Sistema Nazionale di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR), ha assunto un nuovo «sguardo» verso coloro che arrivavano sulle coste europee attraversando il mar Mediterraneo mediante imbarcazioni, come ormai è noto, troppo piccole e affollate per poter affrontare quelle acque che, in realtà, dovrebbero unire due mondi.

 

I progetti di accoglienza domestica, creati in vari Paesi europei, sono una risposta «residenziale-solidaristica». Un’azione che parte dal basso nel tentativo di ridurre la dimensione di vulnerabilità, di disagio, di isolamento e di passività spesso vissuti nei grandi centri a vantaggio del potenziamento delle capacità individuali e personali. Con tali modalità si creano le condizioni per conoscere il territorio, la cultura, sviluppare le opportunità di socializzazione e incrementare le possibilità di raggiungimento dell’autonomia.

 

Sul territorio italiano, questi progetti possono prendere forma tramite enti pubblici come i comuni, un esempio è il Progetto WelcHome di Modena, le cooperative come la CIDAS con il Progetto Vesta di Bologna-Ferrara, gli organismi pastorali come la Caritas con il Progetto Protetto rifugiato a casa mia, le associazioni come il consorzio Farsi Prossimo con il Progetto Fra Noi e le Onlus come Refugees Welcome Italia. Ulteriori progetti sono stati, inoltre, costituiti dalla fine del 2018 a seguito delle continue affermazioni di chiusura da parte del mondo politico e dall’attuazione del Decreto Sicurezza.

 

L’obiettivo di questi progetti è univoco in quanto si rivolgono a quei migranti che dopo aver terminato il tempo di permanenza nei centri statali non sono ancora indipendenti e rischiano di trovarsi in uno stato di forte marginalità. I più vulnerabili sono gli ex minori stranieri non accompagnati (MSNA) poiché iniziano un percorso di inserimento per minori ma nel momento in cui diventano maggiorenni sono costretti ad abbandonare i centri a loro idonei per inserirsi in quelli per adulti. Per questo motivo l’intento dei progetti di accoglienza domestica non è esclusivamente quello di dare ospitalità ma di essere un ponte solido tra l’Altro e la società «accogliente». Ritrovarsi in un ambiente protetto, come quello delle mura domestiche, insieme ad una famiglia o a persone che aprono la porta della propria casa, nonostante le perplessità e le apprensioni di un possibile scontro tra culture, sembra essere una delle possibili strade per un cambiamento sociale e culturale nei confronti di ciò che consideriamo diverso. Questa socializzazione dell’ospitalità prende vita proprio dal bisogno di colmare i limiti e le carenze delle politiche pubbliche.

 

Chi sceglie di accogliere nella propria casa interiorizza la complessa realtà di cui fa parte l’Altro osservando, tramite quel singolare vissuto, la storia, il passato, e tutto il contesto sociale; prende coscienza e dà forma alla decisione di superare le politiche nazionali ed europee conservandone gli aspetti positivi, anziché lasciarsi trascinare passivamente dall’inerzia, dalla comodità e dalla facilità di percorsi già esistenti. La scelta di agire è frutto di una contestazione sociale nei confronti di chi considera coloro che provengono dalla periferia del mondo come invasori e nemici. Il tentativo di chiusura e di espulsione da parte del mondo politico sembra porci di fronte a quello «Stato sovrano» teorizzato da Michel Foucault che decide del destino altrui, decide qual è la popolazione che si può sacrificare spettacolarizzandone le conseguenze. Queste forme di esclusione, sempre più ridondanti attraverso dichiarazioni ufficiali, decreti e modalità di connessione con i cittadini mediante i social media, potrebbero essere anche intese come un tentativo di addomesticamento sociale. Se da una parte questo atteggiamento produce un incremento di atti di razzismo e di emarginazione, in contrapposizione, genera numerosi espedienti di superamento di tali avversità.

 

Di fronte a situazioni «scomode», nelle quali agire significa uscire fuori dagli schemi, spesso si tende a restare in silenzio precludendo ogni possibile alternativa. Non è semplice fare una scelta attiva, ci si mette in discussione e su infinite possibilità se ne seleziona una della quale ci si assume le conseguenze. Agire implica un peso in quanto la scelta fa parte della condizione umana ed è, pertanto, inevitabile. Scegliere di andare contro la normalità, che diventa norma, scegliere di non assecondare ciò che sembra culturalmente corretto, scegliere di non mettere al primo posto la propria identità nazionale significa capire che quella nazione è parte di un’unica società globale, è alzare lo sguardo verso un orizzonte che include. L’essere umano vive il proprio mondo, lo osserva e di fronte a situazioni che non accetta può agire per negarle, per contrastare la realtà dandogli un senso nuovo. È ciò che chi in veste di volontario, operatore sociale o persona accogliente sceglie di fare.

 

Studiando le dinamiche dell’accoglienza domestica è possibile comprendere perché «accade ciò che accade», perché alcune persone scelgono di ospitare qualcuno nelle proprie abitazioni, perché percepiscono in modo differente il reale. C’è chi vede nell’Altro un invasore e c’è chi vede un simile, un essere umano, non un invasore, e agisce pensando all’accoglienza in una modalità che riprende le nostre stesse origini. Ce lo ricorda Fernando – calabrese emigrato a Treviso quando una frontiera immaginaria divideva la nazione in due, gli italiani e i meridionali – che ha aperto la porta della sua quotidianità ad un ragazzo del Burkina Faso.

 

Accolgo per forma mentis, per tradizione storica, culturale, come calabrese – trapiantato a Treviso – sono sempre stato aperto agli altri. Sai che nel periodo della Magna Grecia Giove Pluvio Zeus avrebbe incenerito chi avesse rifiutato il passante, lo straniero? Perché era protetto da Giove e diciamo che questo modo di pensare mi è stato inculcato. Nel paese dei miei genitori non c'era bisogno di avere un motivo per accogliere l'Altro, siamo tutti assieme, dividiamo quel che abbiamo, punto. (Fernando, famiglia accogliente – Caritas Treviso)

 

È una dichiarazione che non si ferma ai confini di una storia contestualizzata, la oltrepassa per ricongiungersi ad una concezione filosofica africana che qualche anno fa è stata ricordata da Barack Obama nel suo discorso funebre per rendere omaggio a Nelson Mandela: l’ubuntu. È una parola che deriva dalle lingue africane che si trovano sotto la linea dell’Equatore e la sua radice -ntu è in rapporto a tutto ciò che è umano. Ubuntu indica l’essere se stessi tramite l’incontro con gli altri, è tutto ciò che riguarda l’umano a partire dalle relazioni sociali. Ubuntu è umanesimo. In questa filosofia l’essere umano è tale perché «appartiene», non è un assoluto nella sua individualità, la sua umanità nasce dall’Altro[3]. L’ubuntu, difatti, fa emergere un senso di comunità e di apertura, è una filosofia intesa come incorporazione di un pensiero, come modo di vivere, che permette di varcare le barriere dell’individualismo spostando lo sguardo da sé stessi agli altri per fare propri anche i problemi e le difficoltà dell’umanità.

 

Per la nostra cultura europea, marcatamente individualista, forse è necessario ricordare che siamo esseri in situazione, viviamo un’epoca e un territorio, facciamo delle scelte in base al contesto in cui siamo inseriti ma, non dimentichiamo, siamo comunque nel mondo, apparteniamo ad una realtà globale. Ciò sta a significare che ogni individuo può scegliere chi essere e cosa fare, ha una libertà che lo rende responsabile delle decisioni prese ma anche di quelle che deleghiamo ad altri, che non vogliamo prendere dando spazio ad un fantomatico destino o pensare che non si può far nulla per cambiare alcune realtà e che c’è qualcuno di più potente che fa delle scelte che non possiamo contrastare. Questo è un tentativo di de-responsabilizzazione perché chiudendo gli occhi e non appoggiando l’aiuto verso l’Altro, verso una vita umana, ci rendiamo responsabili di ciò che quest’ultimo vive.

 

Essere parte del mondo significa che tutto quanto accade ci riguarda. Siamo complici della delocalizzazione delle nostre industrie tessili e manifatturiere che incrementano lo sfruttamento di indiani, bengalesi, pakistani nei loro paesi d’origine; siamo complici del neocolonialismo che, sotto nuove forme, perpetua in logiche di guadagno utili per il progresso dell’Occidente abusando dei territori africani ricchi di minerali, oro e petrolio devastando l’ambiente e le possibilità di sopravvivenza; siamo complici dei 10 anni di conflitti in Siria, della sparizione forzata e delle torture disumanizzanti nelle prigioni del luogo; siamo complici del sostegno finanziario della missione bilaterale in Libia e della sua guardia costiera e, di conseguenza, dei corpi inerti nelle acqua del Mediterraneo di chi tenta la fuga da quell’inferno che chiama casa.

 

Anche se il nostro sguardo non posa direttamente su tali realtà non possiamo affermare che ciò che non vediamo non esista. Forse preferiamo chiudere la nostra finestra sul mondo per evitare che la sofferenza entri nel nostro quotidiano, perché è difficile e doloroso comprendere la vastità di situazioni complesse. Tuttavia, come detto, siamo nel mondo, ci appartiene, ed è impossibile scappare da esso.

 

Per ogni essere umano «pensare alla scelta individuale è considerare la situazione di cui è parte[4]», pertanto, ogni singola storia di vita è in relazione con la storia umana, siamo un «universale-singolare»[5]. Io sono qui, ora, e con la mia singolarità posso raccontare l’universalità dell’umano che, forse inconsapevolmente, incorporo e rappresento. Tale intreccio è un percorso continuo e ricco di complessità, una dialettica, la cui analisi non permette di giungere ad una risposta definitiva ma, al contrario, apre nuove strade che mantengono viva la reciprocità tra soggetto e storia. Se poniamo il nostro sguardo sul singolare osservandolo come una totalizzazione che si cristallizza nelle scelte, nelle azioni e quindi nel vissuto – allontanandoci dalla semplicistica idea di effettuare una somma tra le analogie e le differenze – è possibile indagare sull’universale.

 

Con le storie di vita raccolte dall’incontro di alcuni soggetti dell’accoglienza domestica italiana è stato possibile analizzare un percorso ricco di complessità, un tentativo di dare una risposta individuale ad un fenomeno globale con la consapevolezza che tale soluzione è transitoria, un «cerotto».

 

Tra l’ostilità delle inerzie e la re-azione «anormale» dell’accoglienza

 

Ogni giorno numerose sono le modalità in cui entra in gioco la responsabilità di ciascun singolo individuo: i naufragi nel Mediterraneo, i respingimenti, gli episodi di intolleranza e razzismo, e tanto ancora. Qualcuno preferisce assecondare la comodità dell’inerzia affermando la propria de-responsabilità nei confronti dell’Altro poiché certe cose «sono così» e non si possono cambiare. Altri, invece, re-agiscono, come una voce anomala fuori dal coro, perché non si può tacere dinanzi alle violazioni dei diritti umani. Emerge quindi una contrapposizione di azioni di fronte alla vita umana.

 

Chi definisce qual è il valore di un essere umano? Chi stabilisce chi è degno di essere aiutato? Perché l’Altro è percepito come un elemento di disordine? Perché si sente la necessità di addomesticarlo? Perché lo respingiamo?

 

Da un punto di vista teorico possiamo, per esempio, rivolgere le domande a Émile Durkheim che in Le regole del metodo sociologico delinea il ruolo della sociologia facendo una distinzione tra normale e patologico. Egli afferma che «la generalità del fenomeno [deve essere] assunta come criterio della loro normalità»[6]. Ma cosa è considerato normale?

 

Con l’esistenzialismo, filone di pensiero sul quale si basano le presenti riflessioni, si arriva alla nozione di normalità, un termine «normativo» ma da un punto di vista sociologico volutamente senza una rilevanza etica. Normale è semplicemente per noi ciò che registra una maggiore frequenza. Può essere buono o cattivo, bello o brutto, la valutazione non riguarda la definizione, non c’è un giudizio, non si entra nel merito. Agire in un certo modo, scegliere la ripetizione, la normalità, evita il rischio del nuovo e consolida una continuità. Non vi è spazio per il dubbio, è la certezza data dall’inerzia, confermata e sedimentata dalla replica. Assecondarla «non comporta soltanto un’opzione che si arrocca nel passato, è anche un criterio di ordine»[7]. Quando la normalità all’interno di una società diventa norma legittima, la consuetudine, la continuità di certi comportamenti delineano diritti e doveri. Tale condizione non ha un’origine divina ma umana essendo una costruzione collocata in un determinato tempo e spazio[8]. Il bisogno di ordine, di etichettare, di creare categorie per incasellare il reale ci guida verso la scelta della ripetizione per continuare su una strada già percorsa.

 

La dialettica tra analogia e differenza definisce il limite che distingue il binomio tra normale e anormale, marginalizzando il diverso e rafforzando un’identità concepita come normalità consolidata che favorisce il conformismo. È facile scivolare nell’inerzia, è un automatismo, che crea stabilità tentando di rendere i fenomeni umani qualcosa di rigido come la materia. È una praxis guidata dalla facilità e dalla possibilità di attribuire ad altri la responsabilità di ciò che accade. Già 1890 Gabriel Tarde considera la «legge dell’imitazione» il fattore primario sul quale si adagia la società.

 

Il cittadino moderno si vanta di compiere una libera scelta tra le proposte che gli vengono fatte; ma, in realtà, quella che preferisce, quella che segue, è quella che risponde meglio ai suoi bisogni, ai suoi desideri preesistenti e che derivano dai suoi costumi, dalle sue consuetudini, da tutto il suo passato di obbedienza[9].

 

Sappiamo che il fenomeno umano è in un processo di costante cambiamento: non è materia, rigida, ma è mutevole e resta sempre indeterminato. Riflettere, porsi delle domande e conoscere sono gli elementi che generano il mutamento e, pertanto, la diversità. È quanto fatto da chi sceglie come «essere-nel-mondo»[10], come agire senza essere agito da altri; da chi come nel nostro caso apre le porte della propria casa scegliendo di far entrare una persona «non europea» nella propria quotidianità; e da chi contrasta l’inerzia di una funzionale normalità scuotendo un sistematico pratico-inerte[11] creando qualcosa di nuovo come afferma Federica, referente di Refugees Welcome di Genova.

 

Siamo noi a porre questi esseri umani nello status di rifugiato, scegliamo noi di porli in una condizione di beneficiari e di sussistenza ma non tutti i progetti a riguardo offrono le stesse possibilità. Prima di andare via dal mondo dell’accoglienza statale gestivo una struttura a Genova dove vi erano 50 posti per migranti di prima e seconda accoglienza: ho cercato di aumentare la qualità del Cas per renderlo più vicino al livello dello Sprar. Per equiparare le possibilità...ma non è semplice! In una stanza alloggiavano 3 migranti del Cas e 2 dello Sprar, come potevo fargli capire i motivi per cui non avevano gli stessi diritti? Come potevo dirgli che uno aveva diritto alla borsa lavoro, alla copertura delle spese per il permesso di soggiorno e così via mentre l’altro no? Nella mia struttura cercavo di gestire il budget in modo tale che tutti potessero avere le stesse cose ma ci sono molte altre situazioni in cui questa premura non c’è. (Federica – referente R.W. Genova)

 

In uno dei punti di riferimento di questa progettualità, Federica cerca di non farsi governare dall’inerzia e dalle prassi consolidate. Agisce ponendo il suo sguardo su chi è di fronte a lei, un soggetto che percepisce come essere umano diverso e uguale. Federica riflette su ciò che la circonda, focalizzando la sua attenzione su alcune falle nel sistema di «accoglienza» europeo. Pensare al mondo in cui viviamo è una riflessione focalizzata, limitata e collocata in quanto indirizzata verso ciò che è il nostro oggetto d’interesse.

 

Si sceglie, eppure Herbert Marcuse, nella sua opera L’uomo a una dimensione[12], fa notare come ci lasciamo guidare dalla forza dell’inerzia e dalle prassi. Egli percepisce l’individuo all’interno di una realtà caratterizzata da una confortevole e democratica non- libertà, sempre in uno stato di tensione che sembra introdurci in nuove dialettiche: pace- guerra, necessità-spreco, difensori-aggressori.

 

La società contemporanea sembra avere una grande forza di dominio sull’individuo il quale però se appartiene alla parte «giusta» del mondo, fatta di ricchezze e potere, vive maggiori possibilità e opportunità. È per questo che proprio quest’ultimi, avendo di più, pensano di essere invasi e sentono l’esigenza di auto-proteggersi avviando, o semplicemente accettando, le modalità di emarginazione-espulsione dell’Altro. «Le cose sono così, non possiamo farci niente» è un’affermazione che tutti abbiamo pronunciato nella quotidianità, nelle dinamiche sociali e di fronte ad un sistema o fenomeno che reputiamo impossibile da gestire o mutare. Siamo spinti dalla comodità e dal desiderio di non essere soggetti a responsabilità. Ciò vuole giustificare il «sonnambulismo quotidiano» e la scelta della passività, dell’imitazione e dell’omologazione, perché tanto non si può cambiare nulla. In questo modo la società sembra muoversi ma, in realtà, gira su sé stessa s’irrigidisce e tenta di ritornare al punto di partenza, inerte. Qui è possibile avviare un dialogo critico anche con Durkheim il cui pensiero si basa sull’idea che «l’individuo nasce dalla società e non la società dall’individuo»[13]. È influenzato da una visione organicistica che comprende il mondo seguendo le leggi della natura, un ordine biologico dato e non creato. Se non è l’essere umano a scegliere ma tutto è deciso dalla naturalità delle cose, dove inizia la nostra responsabilità? Di chi sono le scelte?

 

Dalle parole di Federica emergono difficoltà economiche e di gestione dell’ospitalità che sembrano entrare in collisione con la convinzione di alcuni i quali mettono in dubbio il modo in cui il denaro pubblico è utilizzato in queste forme di assistenza. Le fake news, o meglio le false informazioni, sugli alloggi in alberghi di lusso in cui ospitare i migranti e sulla quota giornaliera di denaro data ad ogni singolo individuo fanno parte dello scenario mediatico da tempo. Le informazioni, manipolate e distorte, si trasformano in una verità che, come in un passa parola, si diffondono e prendono forza. Non interessa trovare l’inizio di questo telefono senza fili e la comodità di accettare tali informazioni le cristallizza rendendole certezze.

 

È la coscienza collettiva di Durkheim che governerebbe il singolo per giustificare le scelte fatte e motivare l’inerzia, che dà un ordine e mantiene un equilibrio. Ma «la società non ha un corpo, né tanto meno una coscienza, non ha organi, né è governata dalla biologia»[14]. Siamo noi a dare corpo e anima a questa «coscienza» alimentando giudizi e valori consolidati, rafforzati proprio dalla nostra conferma. In un dialogo tra determinismo ed esistenzialismo vi è quindi una netta differenza che contrappone la stabilità, la ripetizione, l’organicismo, l’inerzia con il movimento, il cambiamento, la scelta, l’azione. Il mutamento è ignoto, non sappiamo cosa abbiamo davanti a noi finché non agiamo. Vuol dire mettersi in discussione. Non è facile uscire dal proprio spazio sicuro, al contrario, è problematico perché si è vulnerabili, perché ciò che è fuori dall’ordinario travolge e scuote. La ripetizione, invece, consolida ciò che si conosce e permette il mantenimento degli equilibri sociali. Tuttavia, nel momento in cui si pone lo sguardo sull’Altro affacciandosi al mondo possiamo essere pervasi dal suo peso e viverne l’angoscia, tanto da non poter più restare fermi, impassibili, proprio come Clara.

 

Ho una lunga esperienza di lavoro in comunità, anni in cui ho visto tanti volti e tante storie. Ho sempre sentito il bisogno di condividere con la mia famiglia questa esperienza, includendo le difficoltà, le incongruenze del sistema di accoglienza, i suoi aspetti critici. Più passava il tempo e più mi ponevo delle domande e tornando a casa ne parlavo con la mia famiglia. Percepivo una serie di allarmi all’interno della comunità legati al fatto di non riuscire a soddisfare neanche i minimi obiettivi dell’accoglienza. Pensa che questi ragazzi al compimento del diciottesimo anno possono essere buttati fuori dalle comunità le quali, allo scattare della mezzanotte, non sono più legalmente pertinente ai MSNA. Questa è la legge! Così ho iniziato ad avvertire il problema della migrazione, dello straniero e mi sono chiesta: ma se le comunità devono avviare un progetto di inclusione e di integrazione perché il neo maggiorenne straniero viene scaricato? Il minore straniero non accompagnato ha una copertura garantita per quanto riguarda le necessità primarie – mangiare, dormire, vestiario – però ha una scadenza che arriva con il loro compleanno dove, si, diventano maggiorenni ma restano stranieri soli. Questo non mi stava bene e allora ho scelto di fare qualcosa: l’accoglienza in casa! (Clara, attivista e famiglia accogliente – R.W. Pesaro)

 

Come Federica, che abbandona il sistema di accoglienza perché incongruente con il suo stesso significato, anche Clara, operatrice sociale, dopo aver conosciuto e lavorato per tali prassi, la rifiuta poiché ne percepisce delle mancanze. Come dicevamo, assecondare la serenità della ripetizione e il sonnambulismo quotidiano significa credere di non agire e invece ci si sottomette all’ordine dei cosiddetti benpensanti. Pertanto, la diversità assume la forma di un enigma da collocare ai margini della vita sociale, esclusa. Così, la paura di essere respinto, «la paura di essere fuori dalla norma, la criminalizzazione delle alternative e non la credula docilità, rende conservatrice una società arrendevole»[15].

 

Adattandoci alla «normalità» rinunciamo a quella libertà che Sartre vede come una condanna perché non possiamo non scegliere e perché siamo posti di fronte a infinite possibilità che scegliendo limitiamo. La scelta angoscia perché in quell’attimo ci ricade addosso tutto il peso delle decisioni prese. L’essere umano è in un qui e ora che non si può ignorare, che lo relativizza costituendolo. L’essere, in uno spazio e in un tempo, diventa esserci (Dasein)[16]. In questa ottica, Clara non può allontanarsi dal mondo di cui è parte, far finta che chi non è un europeo non esista. In realtà potrebbe ma non vuole farlo, non è da lei. Lo vede, lo incontra, lo ascolta e così percepisce il mondo che è in lui, in quel soggetto che conserva gli elementi della realtà a cui appartiene. Il mondo non è più una categoria astratta è tutto davanti a lei in quella persona. Clara o Federica, vivendo a stretto contatto con alcuni ragazzi giunti dalle periferie, iniziano a scoprire cose della loro storia e della realtà dalla quale sono fuggiti. L’incontro genera un’esperienza solidale che è conoscenza, empatia, apertura all’Altro. Ogni migrante che incrocia il nostro cammino si rivela nella sua totalizzazione perché porta con sé tutto il suo vissuto. In lui si può percepire la sua cultura, le sue tradizioni, le sue esperienze, la storia del suo popolo. Ascoltando un frammento di vita riaffiorano le immagini che raffigurano ciò che si ascolta. Non siamo un foglio bianco,  una tabula rasa,  che si avvia ad una nuova conoscenza partendo da zero. La paura che, nel tempo, è stata generata nei confronti dei migranti nasce da ciò che è fuori dal nostro contesto di appartenenza. Questo ci mette in agitazione forse perché la percezione si basa sulla conoscenza che ho di me stesso e del mondo, che, a sua volta, si realizza come ri-conoscere. Quando ascoltiamo il racconto di un migrante ripensiamo a quelle immagini viste in televisione, di imbarcazioni piene di esseri umani provenienti dall’Africa o, andando a ritroso nella memoria, all’arrivo degli albanesi sulle coste pugliesi, o ancora quando erano gli italiani a salire su una nave per attraversare l’Oceano. Si può intuire come non sia facile capire quali siano i criteri che alimentano socialmente, costruiscono lo stereotipo di uno come noi, ma definito extracomunitario.

 

Lo sguardo è indirizzato, filtra, prevede, anticipa la percezione attraverso la appercezione[17] indagata dal padre della fenomenologia, Edmund Husserl come il primo passo della conoscenza. Nel momento in cui si compie questa appercezione, si considera che l’Altro è simile all’Io, all’europeo, all’occidentale. Posso considerarlo tale, parto dall’analogia, scelgo anche in modo consapevole di farlo, e comprendendo che il sistema di «accoglienza» in cui è inserito presenta delle grandi mancanze. Ci pone, come a Clara o Federica, delle domande, quindi entro nella dinamica della dialettica analogia- differenza. Se l’Altro sono io, se è un essere umano con dei diritti che sono universali, perché deve essere trattato come se non lo fosse? Perché la sua vita non ha lo stesso valore della mia? Se la realtà fosse rovesciata e l’Europa la parte colonizzata e sfruttata del mondo, dove povertà, dittature e guerra sono delle costanti, non vorremmo che i nostri figli venissero accolti?

 

Soffermarsi e riflettere su come siamo nel mondo è utile perché fa emergere dubbi e domande che mettono in discussione la realtà a cui si appartiene e che tenta di creare ordine attraverso la chiusura e il respingimento della diversità. Vivere in una società che rende difficile e limitato l’inserimento di chi arriva è un punto di rottura della relazione di fiducia del singolo con il proprio governo. Da qui la scelta che nasce dal basso di creare forme alternative di ospitalità in quanto è un dovere pubblico reagire ai limiti creati da chi vuole respingere e alla costruzione negativa dell’immagine dell’Altro. È un fenomeno umano e globale che riguarda tutti.

 

Gabriel e lo sguardo costituente

 

Il punto di vista presentato in queste pagine, frutto della mia ricerca di dottorato conclusa nel 2020, nasce dalla volontà di un’osservazione che parte dall’ascolto dell’Altro, dalla consapevolezza di porsi di fronte ad un «s-oggetto» di indagine e alla diversità. Il mio sguardo, che volge alla realtà in un approccio qualitativo, non è fatto solo di occhi, come afferma Giovanni Invitto[18], perché non posso separarli dagli altri sensi. Entra in gioco il vissuto del ricercatore che, difatti, contribuisce alla sua percezione della realtà la quale è soggettiva. Osservato e osservatore fanno parte dello stesso mondo. Il ricercatore pone il suo sguardo sul soggetto, lo osserva, vi entra in relazione, lo ascolta, si confronta, riflette. Si costituisce una dinamica che gli permette di entrare in empatia con l’Altro. Emergono sensazioni ed emozioni che il ricercatore comprende durante l’ascolto delle parole del testimone poiché le percepisce come appartenenti anche al suo vissuto. Pertanto, le storie di vita avviano una riflessione che trova origine in un percorso di conoscenza che parte «dall’interno». È una metodologia che permette al s-oggetto di uscire dalla propria marginalità in quanto non si percepisce come oggetto ma un soggetto al quale è dato ascolto. Quindi conoscere e osservare non significa classificare e circoscrivere rigidamente un s-oggetto di studio ma «aprirsi all’infinito».

 

Nonostante in questa ricerca la sociologia sia costantemente in relazione con la filosofia non è mia intenzione parlare di cose astratte. I frammenti di vita raccolti infatti, come quelli di Gabriel – un ragazzo ivoriano accolto da una famiglia di Macerata – rimarcano la concretezza delle parole qui scritte.

 

L’essere umano è inserito nella realtà e si amalgama con essa, permettendoci di osservarla e comprenderla attraverso i suoi comportamenti e le sue scelte. Gabriel è un universale-singolare, ovvero una singolarità che conserva gli aspetti della totalità e in ogni suo fare – o non fare – possiamo ritrovare la realtà in cui è inserito. Leggere il macro mediante il micro e viceversa, ritrovare il tutto nella singola parte. Ponendomi in ascolto della sua storia è stato possibile, ad esempio, comprendere il peso dello sguardo di chi ha paura di quel «nemico» dalla pelle scura.

 

Se vado a fare una passeggiata per Macerata gli italiani che incontro pensano che ho addosso la droga e i ragazzi mi fermano sperando che possa vendergli del fumo. Quando gli rispondo di no mi guardano stupiti del tipo ma tu sei nero, non funziona così? Lo so che sono nero! L’altro giorno mi ha fermato di nuovo la polizia, mi hanno fatto aprire la borsa da calcio dove avevo le cose per giocare a pallone. Loro non ci credevano. Se hai qualcosa diccelo altrimenti è peggio, chiamiamo il cane! Io non avevo niente! Volevano vedere i documenti e allora gli ho dato la carta d’identità italiana. Non gli bastava, volevano il permesso di soggiorno. Ma scusate la carta d'identità serve per capire chi è una persona o no? E allora basta! Su questo pezzo di carta c’è scritto un nome e un cognome, un indirizzo. È tutto scritto ed è nuova, non lo vedi? Ma per loro siccome sono nero non sono credibile. Ma ti presento la carta d’identità, basta! Anche noi in Africa abbiamo la carta d’identità, non viviamo tutti in una grande foresta come pensate voi! Io non avevo nessuna droga e quella era la mia carta d’identità, il mio nome non quello di un altro ma lui non ci credeva e parlando con il suo collega, dicendo anche delle parolacce, hanno chiamato per verificare la mia identità. Gliel’hanno confermata, come il fatto che non avevo questioni di droga. Mi hanno lasciato andare ma ho perso 30 minuti di allenamento solo per il colore della mia pelle e per una carta d’identità. Sono sospettosi delle persone nere, hanno dei pregiudizi. È sempre così, tutti i giorni, che possiamo fare? Niente. (storia di vita di Gabriel, Costa d’Avorio)

 

Il racconto di Gabriel mette in evidenza un concentrato carico di pregiudizi e stereotipi di come «gli italiani» lo percepiscono, come registrano la sua presenza, con uno sguardo costituente che non si limita alla semplice osservazione, «ti vedo». Lo sguardo costituente fa dell’Altro materia costituita, oggetto tra gli oggetti. La percezione arriva con tutta la sua complessità carica di molteplici elementi connessi. Osservare qualcuno significa individuarlo e riconoscerlo come un essere umano simile o diverso da me; significa porsi delle domande; interiorizzarlo e interpretarlo attraverso quei parametri acquisiti nel vissuto per poi negarlo per riaffermarlo nuovamente. L’Altro sente di essere oggetto di coloro che arginano le proprie responsabilità e possono costituirlo in «colui che non è come noi», un diverso da assimilare, un problema.

 

Considerando il vissuto di Gabriel in una prospettiva strutturalista potremmo delineare come il singolo cerca di dare un ordine alle cose. Costruisce e classifica il sociale in categorie di bene-male, uguale-diverso, normale-anormale, corretto-deviante. Non potremmo parlare di ordine senza il disordine. Non sarebbe necessario. Non è una dialettica, piuttosto un confronto tra opposti che si escludono e annullano qualsiasi scambio. È un confronto impossibile perché non esiste, non crea un dialogo di apertura ma, al contrario, cristallizza, blocca, ci lascia fermi su convinzioni che creano chiusura.

 

«Ma tu sei nero, non funziona così? Se hai qualcosa diccelo altrimenti è peggio, chiamiamo il cane». Foucault ha un legame ambivalente con lo strutturalismo, si avvicina alla prospettiva per poterla superare. L’ordine è considerato come un «terreno positivo» sul quale poggiano le teorie generali dell’ordinamento il quale non resta inerte ma muta perché contestualizzato.

 

L’ordine vi appare, a seconda delle culture e delle epoche, continuo e graduato, o frammentato e discontinuo, legato allo spazio o costituito a ogni istante dalla spinta del tempo, imparentato a un quadro di variabili o definito da sistemi separati di coerenze, composto di somiglianze che si succedono in corrispondenza della loro prossimità o si rispondono specularmente, organizzato intorno a differenze crescenti[19].

 

Attenersi a quel senso di ordine su cui l’Occidente crea la sua identità stabilendo chi è dentro e chi fuori dalla propria cerchia porta, secondo Foucault, ad un «imporsi progressivo di strutture anonime e impersonali di saperi codificati, che trasformano la soggettività in un semplice luogo attraversato da tali strutture»[20]. Così l’individuo si lascia guidare da ciò che è prassi e diventa una costruzione sociale.

 

Questo criterio deterministico e strutturato ci offre la possibilità di avere una percezione del mondo già stabilita. Incontrando l’«indesiderato» delle periferie per la prima volta si presuppone apriori che sia uno spacciatore, un ladro, un delinquente, un clandestino, un ignorante senza istruzione o qualcuno che potrebbe farci del male. Lo abbiamo costituito, giudicato senza appello. L’estraneo è il non-previsto, il diverso, ciò che non ci si aspetta, che non si conosce e con il quale non si può fare un gioco di somiglianza per comprenderlo. È qualcosa che non rientra nei parametri di identificazione dell’occidentale e, pertanto, non si accetta. Ciò genera un senso di paura, di incertezza. Quando il migrante non è ancora tale, ma è nella sua realtà di appartenenza, si rivede negli altri e gli altri in lui, tuttavia quando scappa e arriva in un altro Paese verrà definito Altro, un migrante, straniero, uno definito da ciò che non è, una mancanza.

 

Com’è percepito l’Altro? Quando ci appare egli è considerato in base al punto di vista di chi lo osserva il cui sguardo lo limita tanto da etichettarlo e stigmatizzarlo. Numerosi sono gli autori che riflettono sulla percezione e tra i tanti ricordiamo Maurice Merleau-Ponty il quale ammette che al soggetto, oggetto del nostro sguardo, deve essere attribuito un senso[21]. In verità, fa notare Sartre, «ciò che appare [...] è solamente un aspetto dell’oggetto e l’oggetto è tutto intero in questo aspetto, e tutto fuori di esso»[22]. Ciò significa che l’essere umano porta con sé la totalità del suo essere, le sue esperienze, la sua realtà, la sua cultura. Attraverso ogni singolarità è possibile vedere l’universalità. Sartre parla di infinito nel finito. Potremmo dire che quanto detto ci riporta al concetto di percezione di Max Scheler che parla di un altro io del quale si fa esperienza mediante il suo corpo. Quest’ultimo non è fatto solo di materia ma è un corpo vivo che si presenta a noi e ci parla mediante la sua espressione. Corrisponde ad una totalità che va oltre la semplice somma delle sue parti.

 

Che qualcuno mi guardi amichevolmente, o in modo ostile, lo colgo nell’unità di espressione dello sguardo, molto prima di poter indicare il colore e la grandezza degli occhi[23].

 

Seguendo tale prospettiva si comprende come il migrante, quando incontra l’occidentale, riconosce immediatamente il suo sguardo, la percezione che ne scaturisce e che riporta all’ostilità di chi vede nel diverso un nemico. Più che accoglienza vede rifiuto. In un’ottica fenomenologica esistenziale questo sguardo cristallizza quel determinato individuo ponendolo lontano da chi lo percepisce in un’opposizione che fortifica il senso identitario rimarcando, invece, quel «non è come me». Per poter comprendere la dialettica tra Io e Altro bisogna partire «dal presupposto di una base comune, di un non differenziato sul quale si fa necessaria la differenziazione»[24]. L’alterità emerge solo se vi è un’identità alla quale contrapporsi, in caso contrario, non esiste in quanto si riduce all’idem, per usufruire della terminologia di Paul Ricoeur, un identico che, in realtà, nel suo vivere quotidiano è in un continuo processo di alterazione nel quale riconoscersi[25]. Qualunque persona, stando nel mondo, vive un continuo rapporto tra soggetti, un rapporto che, secondo Emmanuel Lévinas, «comincia nell’ineguaglianza dei termini»[26] considerati come trascendenti. Dalle sue riflessioni si evince una diversità già costituita: Gabriel è l’Altro, mentre, il militare italiano è l’Io, l’Altro diventa oggetto, mentre chi osserva diventa soggetto.

 

Perché cristallizzare apriori Gabriel collocandolo in uno spazio di diversità? È il soggetto, qualunque esso sia, a stabilire le relazioni e i parametri di somiglianza e di differenza con gli altri; basti pensare a come coloro che appartengono ai paesi centrali si percepiscono simili tra loro ma considerano diversi coloro che fanno parte dei paesi più periferici. Quando qualcuno entra a far parte di un nuovo contesto, difatti, trova dinanzi a sé preconcetti e pregiudizi di coloro che appartengono a quella specifica realtà. Le ultime parole di Gabriel sembrano essere perfettamente in linea con ciò che è emerso, oramai più di mezzo secolo addietro, dallo studio di Nombert Elias e John L. Scotson sulle strategie di esclusione. Essi mettono in luce sia l’ostilità delle «vecchie famiglie [che] si consideravano umanamente migliori, superiori»[27] sia il senso di arrendevolezza e passività del nuovo arrivato di fronte alla scelta di chi lo percepisce come un soggetto ambiguo e privo di rispettabilità.

 

Gabriel, scappato dalla Costa d’Avorio, arrivando in Italia ha affrontato – da minore solo – un viaggio fatto di incertezze e di infiniti ostacoli come il deserto, i lager, il mare. Tuttavia, sente di non avere possibilità quando incontra l’europeo. Gravano su di lui secoli di discriminazione, schiavitù e sfruttamento, si sente «inferiore». Percepisce i pregiudizi scaturiti da uno sguardo che si sofferma semplicemente sul colore della sua pelle tanto da ribadire «Lo so che sono nero» e continua così la sua storia.

 

Quando ero ancora al Gus era ancora peggio: un giorno siamo andati a giocare a calcio e qualcuno ha urlato voi neri non avete niente dentro la testa, è un uovo vuoto. Mi sono trattenuto per non fare qualcosa di brutto ma ho smesso di giocare! Sono andato fuori e le persone mi dicevano lascia perdere [...] non fare attenzione a quello che dice. Ma non potevo giocare con qualcuno che pensa queste cose. Io ho un diploma come il vostro ma lo so che qui non ha valore! Anche voi avete persone dalla mentalità molto chiusa e non capiscono cosa succede oltre il loro recinto.

(storia di vita di Gabriel, Costa d’Avorio)

 

Le affermazioni fatte per nuocere chi è Altro da me sono utilizzate per creare e rafforzare la diversità, una modalità che al contempo fortifica la ripetizione di ciò che è simile. Desiderare la ricerca della somiglianza porta Gilles Deleuze[28] a riprendere il pensiero di Tarde sull’imitazione e a riflettere su come la ripetizione e il bisogno dell’identico rendono l’Occidente un simulacro. La diversità assume toni negativi ed entra a far parte del senso comune. Chi è sottoposto allo sguardo altrui ne è travolto, ne sente il peso che lo determina.

 

Sartre dedica un suo lavoro a Jean Genet, drammaturgo francese del Novecento, con la cui storia ci offre una spiegazione di ciò che intende per libertà, una libertà concreta dove si realizza il vissuto di un soggetto situato. Perché la vita di Jean Genet può essere collegata al migrante? È il vissuto di Gabriel che ci fornisce un filo rosso che lega due eventi così diversi ma uniti da uno sguardo esterno che cristallizza creando una categorizzazione.

 

Genet è l’Altro, un oggetto tra gli oggetti, colui che da bambino, in un momento di gioco, si rende conto della propria solitudine e tale consapevolezza genera un forte senso di angoscia che lo porta come ad estraniarsi dal proprio corpo. È qui che, senza rendersene conto, Genet allunga la sua mano per prendere un oggetto ma qualcuno lo vede, lo percepisce e afferma «Tu sei un ladro»[29]. Secondo Sartre le parole usate per definire Genet hanno un peso tanto forte da schiacciarlo come una maledizione dalla quale non si ha via di scampo, non si contrasta, anzi, lo costituiscono come ladro per sempre. Allo stesso modo, Gabriel sente lo sguardo di chi lo determina, qualcuno dice «voi neri non avete niente dentro la testa, è un uovo vuoto», una frase che ha lo stesso peso di chi lo ferma con la certezza di essere di fronte a un soggetto irregolare e deviante. Il migrante sembra accettare lo sguardo come «un potere costituente che l’ha trasformato in natura costituita»[30]. Al contempo, non vuole essere agito da altri, non è un oggetto inerte e quindi non vuole nascondersi e accettare – in malafede direbbe Sartre – ciò che la realtà vuole fare di lui. «Mi sono trattenuto per non fare qualcosa di brutto ma ho smesso di giocare». Con questa azione di negazione Gabriel si riappropria della sua soggettività poiché «qualunque cosa si dica su di noi può essere rifiutata in nome di un’opinione diversa»[31] ci ricorda Simone de Beauvoir parlando della consapevolezza di sé.

 

Dal punto di vista assunto in queste pagine, che si distacca dall’idealismo e dall’astratto, la consapevolezza non è la coscienza la quale, invece, si costituisce tramite il rapporto con l’esteriorità, con il mondo nel quale si è situati. Se l’Io non ha esperienza dell’Altro su cosa si basano le sue affermazioni? L’individuo può costruirsi un’immagine del migrante che non sempre nasce dalla percezione, dalla sua attività conoscitiva, ma deriva da una sua interpretazione. Immaginarlo significa negare il suo essere reale, decontestualizzarlo e dargli una nuova forma che deve avvalorare quell’immaginazione[32]. Ancor prima di incontrare il «non europeo» quest’ultimo è immaginato come il diverso, collocato fuori da quel noi che stabilisce ordine e certezze nella realtà di appartenenza, un problema o nel migliore dei casi un oggetto da sistemare.

 

Alcune riflessioni di apertura

 

Il percorso tracciato mostra una continua relazione tra i soggetti e tra l’essere umano e il mondo, una dialettica che mette in evidenza la diversità umana. Siamo posti di fronte ad una realtà plurale che però non accettiamo come tale. La storia ci ricorda le difficoltà che l’individuo riscontra quando si trova in contatto con la diversità. Quanti popoli sono sottomessi da chi si posiziona al vertice di una immaginaria piramide sociale.

 

La realtà umana è una ma suddivisa in molteplici contesti con culture, tradizioni, codici diversi che costituiscono e determinano, come una forza esterna, coloro che vi appartengono. Vi è una linea invisibile che circoscrive ogni micro-sistema e che definisce l’identità ma anche l’alterità. È in tal modo che il confine rimanda al concetto di confinamento dove l’essere rinchiuso in uno spazio al margine rinforza quell’identità fatta di alterità attribuita.

 

È interessante notare come ancor prima che il migrante diventi tale, perché all’interno dei confini territoriali dell’Occidente, è considerato alterità mentre è nella propria realtà di appartenenza. Perché? Ciò che qui consideriamo l’oggetto di studio è solo un piccolo aspetto di un fenomeno complesso e globale. Ma «piccolo» non è insignificante. Le migrazioni racchiudono in sé molteplici elementi ed è difficile offrire una lettura lineare e omogenea. Per cercare di dare una risposta alle domande poste è importante non essere strettamente legati all’ambito disciplinare di riferimento. Cercare di analizzare la realtà sociale richiede uno sguardo più ampio, plurale, che permette di trovare quelle briciole che ci avvicinano un po’ di più al fenomeno.

 

Bibliografia

 

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Note

 

* Il presente articolo è frutto del lavoro di ricerca dottorale dell’autrice la quale, nella primavera del 2019, ha raccolto 74 storie di vita tra ragazzi migranti accolti e persone accoglienti e interviste libere a volontari e operatori sociali per analizzare l’incontro-scontro tra realtà differenti che coesistono in uno stesso spazio e tempo. A seguito della pandemia, nel 2020, l’autrice ha effettuato un’integrazione del lavoro con l’aggiunta di ulteriori interviste per osservare alcune delle conseguenze del Covid-19 su tale accoglienza.

 

[1] R. Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza Editore, Vicenza 2018, p.92.

[2] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2015, p.313.

[3] J. Mugumbate, A. Nyanguru, Exploring African philosophy: the value of ubuntu in social work, African Journal of Social Work, vol.3, num.1, August 2013.

[4] C. Tognonato, Il corpo del sociale. Appunti per una sociologia esistenziale, Liguori Editore, Napoli 2006, p.84.

[5] La categoria universale-singolare, dal punto di vista delle scienze umane, è una dialettica che ritorna, un movimento dinamico che permette di comprendere i fenomeni umani e sociali. Mediante la singolarità dell’individuo è possibile comprendere la complessità della società, del mondo.

[6] É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Comunità, Milano 1963, p.79.

[7] C. Tognonato, Teoria sociale dell’agire inerte. L’individuo nella morsa delle costruzioni sociali, Liguori Editore, Napoli 2018, p.135.

[8] Ivi, p.138.

[9] G. Tarde, Le leggi dell’imitazione, Rosenberg&Sellier, Torino 2012, p.250.

[10] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2019.

[11] La nozione di pratico-inerte esprime la tensione tra l’agire e le varie forme di resistenza della materia. La realtà umana è ricca di oggetti e segni che gravano sulle scelte dell’essere umano il quale segue i suggerimenti da loro definiti.

[12] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.

[13] R. Aron, Le tappe del pensiero sociologico, Mondadori, Milano 2010, p.301.

[14] C. Tognonato, Teoria sociale dell’agire inerte, cit., p.78.

[15] Ibidem.

[16] Dasein nella traduzione tedesca significa esistenza, esistere. Nella concezione filosofica di Martin Heidegger, dasein è il modo di essere del singolo individuo, è l’esserci in uno spazio e in un tempo nel quale ci si rapporta con gli altri enti.

[17] E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2015.

[18] G. Invitto, Dal gioco dell’essere al lavoro ermeneutico, Franco Angeli, Milano 1989.

[19] M. Foucault, Le parole e le cose, Bur Rizzoli, Milano 2020, p.11.

[20] A. Santambrogio, Introduzione alla sociologia: le teorie, i concetti, gli autori, Laterza, Bari 2014, p.210.

[21] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2019, p.74.

[22] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p.11.

[23] M. Scheler, Essenze e forme della simpatia, Franco Angeli, Milano 2010, p.230.

[24] C. Tognonato, Il corpo del sociale, cit., p.44.

[25] P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.

[26] E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1986, p.257.

[27] N. Elias, J.L. Scotson, Strategie dell’esclusione, il Mulino, Bologna 2004, p.16.

[28] G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.

[29] J.P. Sartre, Santo Genet, Il Saggiatore, Milano 2017, p.21.

[30] Ivi, p.55.

[31] S. De Beauvoir, La terza età, Einaudi, Torino 1970, p.13.

[32] C. Tognonato, Il corpo del sociale, cit., p.27.

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