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La vita, l’eccesso, l’autobiografia / A cura di Beatrice Barbalato / Vol.20 N.1 2022

Storia di ‘colei che nessuno vuole’: tra eccesso e ricerca di sé ne Le Baobab fou di Ken Bugul

Elena Ravera

magma@analisiqualitativa.com

Elena Ravera, Università degli Studi di Bergamo. È dottoranda in Studi Umanistici Transculturali, nonché cultrice di letteratura francese, all’Università degli Studi di Bergamo, con una tesi intitolata Corpi spezzati. Sulla rappresentazione della corporeità femminile in Louise Dupré e Ken Bugul. Ha arricchito il suo percorso accademico con soggiorni di studio e di ricerca presso la Sveučilište u Rijeci (Croazia), l’Université Sorbonne Nouvelle Paris III (Francia) e l’Université de Montréal (Canada). Collabora regolarmente con diverse riviste letterarie, come Ponti/Ponts e Studi francesi, tramite la pubblicazione di recensioni e articoli dedicati al contesto letterario francofono. I suoi campi di ricerca principali sono la letteratura comparata e in lingua francese, gli studi di genere e i postcolonial studies.

 

Abstract

È il 1982 quando la senegalese Mariètou Mbaye Biléoma, all’età di trentacinque anni, diventa Ken Bugul: sotto consiglio del suo editore, preoccupato dalle polemiche che avrebbe suscitato il suo primo romanzo Le Baobab fou, la donna sceglie infatti di ribattezzarsi con questo pseudonimo, che, in lingua wolof, significa ‘colei che nessuno vuole’. L’opera narra la dolorosa storia dell’autrice, la quale, in seguito all’ottenimento di una borsa di studio, parte alla volta dell’Europa, «le Nord Terre promise» (Bugul K. 2009: 39), ma, invece di vivere l’avventura edificante e arricchente che aveva sempre sognato, si scontra con una società misogina e razzista, cadendo nel baratro della depressione e nel tunnel dell’alcol, della droga e della prostituzione. «J’essayais de scandaliser la société» (Ibid.: 119), racconta un io narrante smarrito e sofferente, che si illude di aver trovato, nella sfrenata sperimentazione dell’eccesso in seno a un territorio e a una cultura estranei, la sua anelata chiave identitaria. Il mio contributo propone dunque un’analisi stilistico-tematica de Le Baobab fou in merito al concetto di ‘eccesso’, un eccesso vissuto dall’autrice tanto a livello personale quanto a livello letterario. L’obiettivo è di condurre una riflessione sul carattere volutamente dissenziente e provocatorio della scrittura semi-autobiografica buguliana, che cela, in questo testo ormai considerato un classico della letteratura femminile africana, postcoloniale e francofona, nient’altro che l’umano desiderio di sentirsi compresi, amati e accettati.

 

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John Singer Sargent (1856 Firenze, 1925 Londra), Studio di Clitennestra per Oreste Inseguito dalle Furie, murale 1916, Stairway, Museum of Fine Arts - Boston, Yale University Art Gallery.

Premessa

 

L’intera produzione letteraria di Ken Bugul, all’anagrafe Mariètou Mbaye Biléoma, è visceralmente legata al suo difficile trascorso personale, il quale ha forgiato, negli anni, il suo carattere ribelle e anticonformista: «Je suis une créature, une réalité dissidente» (Le Gros J. 2015. Il testo non riporta la numerazione delle pagine[1]). spiega la scrittrice nel corso di un’intervista per la rivista «The dissident». Nata nel 1947 in un piccolo villaggio rurale del Senegal occidentale, all’epoca ancora colonia francese, la sua vita è, fin dalla tenera età, segnata da un vissuto complesso, controbilanciato spontaneamente da un animo dinamico e coraggioso: autrice di numerose opere di successo, tra cui mi limito a segnalare il suo ormai celebre trittico composto da Le Baobab fou (1982), Cendres et braises (1994) e Riwan ou le chemin de sable (1999), Bugul lavora assiduamente a una scrittura in grado di abbracciare l’ambizioso e quanto mai necessario progetto di una négritude-donna (Sharpley-Whiting T. D. 2002) inscritta nella contemporaneità, dove il suo disinibito – e a tratti esasperato – gesto autobiografico affianca l’attenzione per la dimensione femminile alla questione africana e le annesse dinamiche post(-)coloniali[2].

 

Nel testo che sancisce il suo esordio editoriale, nonché primo capitolo della trilogia, la romanziera narra infatti la sua dolorosa storia dando voce alla narratrice autodiegetica Ken e raccontando come, dopo aver trascorso l’infanzia «dans un petit village situé dans une région du Sénégal qu’on appelle le Ndoucoumane» (Bugul K. 2009: 35) e aver vissuto il trauma dell’abbandono materno così come la forzata e violenta assimilazione da parte della cultura del colonizzatore, in seguito all’ottenimento di una borsa di studio parte alla volta dell’Europa, ma, invece di vivere l’avventura edificante e arricchente che aveva sempre sognato, si scontra con una società misogina e razzista, cadendo nel baratro della depressione e nel tunnel dell’alcol, della droga e della prostituzione, sino a sfiorare addirittura l’idea del suicidio, «[l]e terme qui [l]’avait toujours effrayée en même temps que fascinée» (Ibid.: 209). Per la scrittrice-narratrice de Le Baobab fou, nel percorso personale come in quello letterario, tutto è portato all’estremo, ogni avvenimento narrato è condensato nell’immagine di un limite inaccessibile da valicare a tutti i costi, in un vorticoso seppur inarrestabile sforzo sisifeo volto all’anelato raggiungimento dell’integrità identitaria e di un luogo dove sentirsi finalmente amata e accettata, due condizioni esistenziali imprescindibili che, fin dalla nascita, le sono state dolorosamente negate.

 

Se il principio di ‘eccesso’ rappresenta un longevo e caleidoscopico topos ricorrente nell’arte, nella letteratura e nella critica contemporanee e transnazionali di espressione francese – si pensi, a tal proposito, agli studi sul mito del Don Giovanni portati avanti da Jean Starobinski (2005), all’ancora attualissimo saggio La Notion de dépense di Georges Bataille (1933) o all’incitazione alla rivolta inneggiata da Albert Camus ne L’Homme révolté (1951) –, appare subito evidente come esso trovi, anche nella peculiare esperienza che lega Ken Bugul al suo primo romanzo, soluzioni narrative ed estetiche estremamente variegate e interessanti. Il presente contributo intende dunque riflettere sulla nozione – anzi, sulle nozioni – di ‘eccesso’ sperimentate e messe in atto dall’autrice de Le Baobab fou secondo tre prospettive differenti, benché complementari: l’eccesso inteso come scandalo, quello provocato con la pubblicazione del volume, dai chiari e audaci riferimenti autobiografici; l’eccesso retorico ricercato dalle scelte formali, volte all’esasperazione dei fatti narrati; l’eccesso, infine, suggerito dall’eccezionalità degli sconvolgenti avvenimenti raccontati e da lei, almeno in parte, realmente vissuti. Dopo un’iniziale contestualizzazione del testo buguliano in seno al contesto socio-letterario senegalese e, più in generale, dell’Africa subsahariana francofona a partire dagli anni Settanta del XX secolo, l’articolo andrà dunque a soffermarsi su una riflessione in merito al genere dell’opera, apparentemente in biblico tra autobiografia e autofiction, per presentarne quindi un’analisi stilistico-tematica al fine di individuare le tracce di questa singolare strategia narrativa e linguistica votata all’eccesso, nonché sintomatica del carattere volutamente dissenziente e provocatorio della scrittura di Bugul. L’obiettivo preposto è di mostrare come, in questo libro ormai considerato un classico della letteratura femminile africana e postcoloniale, il dispendio e la narrazione di sé si influenzino e arricchiscano reciprocamente, rivestendo inoltre per l’autrice il ruolo di una vera e propria salvifica «démarche thérapeutique» (Ka S. 2018 s.n.).

 

L’intervento femminile nella letteratura dell’Africa subsahariana in lingua francese: Ken Bugul e le autrici ‘senza etichetta’

 

Per comprendere fino in fondo lo spessore e l’importanza del contributo artistico-letterario apportato da Bugul con il suo primo romanzo all’interno dell’ampio panorama delle letterature transnazionali di espressione francese, è innanzitutto necessario soffermarsi sull’ambito socioculturale che la circonda nel momento in cui decide di redigere e quindi pubblicare il suo libro, che viene dato alle stampe, per i tipi de Les Nouvelles Éditions Africaines, nel 1982. All’epoca, il Senegal gode dell’indipendenza dalla Francia da ormai oltre vent’anni e, come segnala Valeria Sperti, «[i]l contesto postcoloniale […] mette in scena una polifonia in cui il personaggio femminile non partecipa più in posizione subalterna. […] Se[…] la letteratura africana in francese comincia intorno agli anni Venti, dovremo attendere gli anni Sessanta per leggere le opere delle prime scrittrici, la cui parola era ancora confinata nei limiti etnici o familiari. In Senegal, Aminata Sow Fall pubblica il suo primo romanzo, ‘Le Revenant’, nel 1976, infrangendo un’importante barriera di genere» (Sperti V. 2013: 48).

 

Le Baobab fou appartiene precisamente a questa nuova ed effervescente presa di coscienza letteraria femminile riscontrabile in autrici appartenenti al contesto dell’Africa subsahariana francofona a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, le quali si nutrono del femminismo di seconda e terza ondata di stampo occidentale sottolineandone al contempo le dovute differenze: la donna africana passa quindi finalmente da oggetto a soggetto letterario e «s’emancipe de plus en plus des servitudes et des tabous [pour] tuer le vide du silence» (D’Almeida I. A. 1994: 49), senza rivendicare, di contro, l’adesione diretta al movimento femminista della scuola europea o nordamericana. Per questo motivo, Kadiobra-Kassi ha suggerito di impiegare il termine di féminisme alabélisé o anétiquetté «pour désigner toutes [c]es écrivaines qui se refusent à être marquées du sceau féministe mais qui font pourtant de la cause féminine l’une des leurs préoccupations tant scripturaire que sociale» (Kadiobra-Kassi B. 2003: 194).

 

Le autrici subsahariane ‘senza etichetta’, tra cui spicca il contributo buguliano, concepiscono dunque delle opere che, se da una parte rivendicano i diritti delle donne, dall’altra negano o tacciono la loro effettiva militanza; il loro intervento in letteratura sancisce tuttavia una vera e propria rivoluzione nel contesto editoriale africano in lingua francese dell’epoca, prediligendo inoltre significativamente, in larga misura, il genere autobiografico. Dalla camerunense Calixthe Beyala (C’est le soleil qui m’a brûlée, 1987) all’ivoriana Tanella Boni (Une vie de crabe, 1990), passando per le senegalesi Aminata Sow Fall (Le Revenant, 1976; La Grève des bàttu, 1979), Nafissatou Diallo (De Tilène au Plateau, une enfance dakaroise, 1975) e Mariama Bâ (Une si longue lettre, 1979), la scrittura autoreferenziale viene infatti percepita, da questa nuova generazione di scrittrici, come un prezioso strumento di affermazione non solo letteraria, ma anche politica, tanto per chi scrive quanto per chi legge: come segnala Díaz Narbona: «la forme autobiographique peut être conçue comme une issue au problème complexe de l’altérité, donc de la différence, car c’est l’existence même du Sujet qui est garantie par l’existence du texte. […] [L]a finalité même de cette narration a une visée ‘politique’, qui est de rendre public ce qui n’était que privé. […]. [L]e je féminin qui se raconte appelle indéfectiblement un tu, également féminin, qui écoute et partage. Voilà pourquoi, peut-être, la première personne est le procédé littéraire le plus utilisé dans cette écriture, car il rend à la narration un élément universalisant» (Díaz Narbona I. 2002: 50. Corsivi di Díaz Narbona).

 

Verso lo scandalo letterario: genesi di un’autofiction

 

Anche Bugul, sulla scorta delle sue compatriote, ricorre dunque, secondo Irène Assiba D’Almeida e Sion Hamou, a «une écriture spéculaire, autobiographique au sens littéral du mot: une biographie, une graphie du vivant, une vie qui s’écrit, s’épanche, s’auto-écrit» (Assiba D’Almeida I. e Hamou S. 1991: 43), contaminando tuttavia realtà fattuale e immaginazione artistica. Nathalie Carré, nella quarta di copertina del romanzo, nella sua riedizione del 2009 a cura della casa editrice Présence Africaine, ha sottolineato la portata avanguardistica di quello che lei stessa definisce «un livre fondateur» (Bugul K. 2009: quarta di copertina): «Drogue, sexe, prostitution: un récit de vie et une publication par lesquels […] le scandale arrive! Mais force est de constater que depuis, Le Baobab fou n’a pas pris une ride! Sans doute parce que les réflexions qu’il soulevait, avec la franchise qui caractérise l’auteur, étaient des plus profondes: introspection fine à la recherche de soi et en quête d’appartenance, le portrait de la narratrice Ken Bugul pose aussi la question des conditions du dialogue et de la fraternité et dessine les rapports particuliers qu’entretient avec le Sud un Occident en plein désarroi qui réclame ‘sa part d’exotisme et de culpabilité’» (Ibidem).

 

Carré non esita a impiegare il termine scandale, ‘scandalo’, soprattutto rispetto all’evidente quanto sconcertante natura autobiografica dei fatti narrati, sebbene la precisa definizione del genere letterario dell’opera sollevi ancora oggi alcuni dubbi e incertezze.

 

La romanziera si discosta in effetti dal rigido «pacte autobiographique» teorizzato dal primo Lejeune (Lejeune Ph. 1975) per elaborare il racconto sincero e disincantato dei suoi primi vent’anni di vita, seppur inscrivendolo entro i labili contorni di un «univers mythique, dans l’atmosphère hétéroparodique d’un conte ou d’une épopée» (Bisanswa J. 2012: 23): sin dal capitolo introduttivo dell’opera, intitolato «Pré-histoire de Ken», il romanzo è infatti impregnato di dettagli ed elementi allegorici dal sapore mistico, culminanti, al termine di questa prima sezione, nell’evocazione semi-leggendaria dell’arrivo dei colonizzatori europei nel suo villaggio natale. Unendo il destino della protagonista a quello del baobab – simbolo nazionale del Senegal –, l’autrice attribuisce un tono epico alla narrazione della sua infanzia, della sua adolescenza e della sua prima giovinezza, confidando alla carta i traumi vissuti, da bambina, in un’Africa in piena transizione politica e, da giovane adulta, durante il suo deludente viaggio in Belgio.

 

Le sue tumultuose e spesso dolorose esperienze, in particolar modo il prematuro e lacerante distacco dalla figura materna, sono d’altronde efficacemente riassunte e al contempo riscattate dal suo stesso pseudonimo letterario: in effetti, in lingua wolof, ‘Ken Bugul’ significa ‘colei che nessuno vuole’ e, in Senegal, viene tradizionalmente assegnato alle bambine nate in seguito a più aborti spontanei, proprio per sottolineare che neppure la morte vuole averci niente a che fare. È l’autrice stessa a spiegare la genesi del suo nome d’arte in occasione di un’intervista: «Une femme en état de grossesse accouchait d’un bébé normalement. Au bout de deux jours, le bébé décédait brusquement. La femme refaisait une grossesse sans problèmes. À nouveau, le bébé décédait. À la troisième grossesse, quand le bébé naissait, s’il était de sexe féminin on l’appelait tout de suite Ken Bugul: ‘personne n’en veut’, en sous-entendant que ni le mauvais œil, ni le mauvais sort, ni même la mort n’en voudront. Comme ces enfants ont survécu, le prénom est demeuré. C’est devenu un prénom courant.» (Le Gros J. 2015 s.n.)

 

È così, dunque, che la scrittrice, memore di tutte le peripezie da lei vissute e confessate nel suo primo romanzo, ha scelto ironicamente di ribattezzarsi in seguito alla richiesta del suo editore, Les Nouvelles Éditions Africaines, di trovare un nom de plume, preoccupato dalle polemiche che avrebbe suscitato Le Baobab fou: «Il n’avait jamais publié d’autobiographie et encore moins d’une femme qui parlait de sexualité, de drogue, de culture hippie et remettait en question les symboliques de la mère, de la famille! C’était scandaleux pour une femme sénégalaise musulmane, issue d’un milieu traditionnel et d’un père marabout, de parler de ces choses-là [sic]. Finalement, j’ai proposé le prénom d’une de mes copines au village, qui vit toujours, Ken Bugul Seck. C’est après que je me suis rendu [sic] compte qu’inconsciemment le fait d’utiliser ce prénom, qui signifie en wolof ‘personne n’en veut’, est lié à mon parcours personnel» (Ibidem).

 

Se, da un lato, la scelta di pubblicare il testo con un nome fittizio non va in alcun modo a inficiare l’autenticità del pacte autobiographique buguliano, giacché, secondo lo stesso Lejeune, «[l]e pseudonyme est simplement une différenciation, un dédoublement du nom, qui ne change rien à l’identité» (Lejeune Ph. 1975: 24), dall’altro i temi e gli argomenti trattati nel libro sono, in fin dei conti, esperienze da lei realmente vissute, benché, come segnalato da Karine Gendron, Bugul «souligne (…) son imposture autobiographique par différentes modalités, comme l’usage d’un animisme qui donne à la narration une couleur de réalisme magique» (Gendron K. 2016 s.n.). Ecco perché, in definitiva, come mi è stato peraltro confermato dalla stessa scrittrice, possiamo considerare Le Baobab fou «une autofiction, mais pour l’époque on disait autobiographie et autobiographie romancée. Cependant à un très large pourcentage, il s’agit de vécus réels. Pour moi, c’est une autobiographie qui comprend des vécus intensifiés par des non vécus [sic] pourtant familiers» (mail del 6 febbraio 2021).

 

L’eccesso come esasperazione retorica: aspetti stilistici

 

Se il romanzo è evidentemente attraversato da un sincero e risoluto sguardo autoreferenziale, esso non rinuncia tuttavia a scivolare, in diversi momenti della narrazione, verso un pathos retorico scaturito da una spontanea contaminazione tra realtà fattuale e immaginazione letteraria: in effetti, ciò che più colpisce il lettore e la lettrice de Le Baobab fou sono la rabbia e la commozione con cui Ken, la protagonista e voce narrante corrispondente all’istanza autoriale, racconta senza censure quella che Bernard Noël ha definito efficacemente come sensure (Noël B. 1992), cioè la privazione di senso, qui da intendersi in una prospettiva esistenziale più che semantica, correlata allo straniamento culturale a cui la donna è stata sottoposta, fin dalla nascita, dal duplice processo di de-colonizzazione e dal suo fallimentare soggiorno europeo.

 

Diverse le strategie formali adottate da Bugul per restituire al suo pubblico il suo senso di totale e spaventoso smarrimento, la sua angoscia crescente, il suo lacerante tentativo di accettare se stessa e sentirsi, di riflesso, finalmente accettata dallo sguardo giudicante o indifferente dell’Altro – la madre mancante, gli amanti sfuggenti, i Bianchi intrinsecamente razzisti: iperbole e climax sono le due tecniche stilistiche, riconducibili a una precisa estetica testuale dell’eccesso, da lei privilegiate. In effetti, la sua scrittura «est généralement caractérisée par le ton de colère d’une part, et par les questionnements sans réponse qui mettent en évidence une abduction de la raison, de l’autre» (Ahihou C. 2011: 40); la scrittrice si serve di un linguaggio iperbolico che, deformando la realtà, tende verso l’esagerazione e verso quella che Christian Ahihou ha definito un’«accumulation extensive» (Ibid.: 41) giocata sull’esasperazione delle emozioni, in modo da provocare una reazione da parte di chi legge: «[e]lle crée l’hyperbole qui tend à susciter d’office, soit la compassion du lecteur dans le sens positif, soit son antipathie dans le sens négatif» (Ibidem). Interessante è anche il ricorso alla figura del climax, che, nelle ultime pagine del romanzo, appare sottoforma di una straziante e crescente accumulazione di interrogativi senza risposta rivolti alla madre perennemente assente, mimando l’angoscia e la concitazione dell’io narrante: «Pourquoi la mère était-elle partie? Pourquoi m’avoir laissée sous le baobab toute seule? […] Il ne faut jamais laisser l’enfant seul sous le baobab. La mère ne devait jamais partir. Pourquoi était-elle partie? […] Oh mère, que vous ai-je fait? Qu’avez-vous fait? Ah, si vous me voyiez en ce moment, comme je voudrais mourir!» (Bugul K. 2009: 214-215. Corsivi di Bugul).

 

Sebbene l’opera sia interamente attraversata e caratterizzata da questa violenta rabbia narrativa, causata perlopiù dall’indifferenza materna, non tutti i critici sono d’accordo nel considerare Bugul come innocente e indifesa vittima della sua stessa esistenza: in una sua personale lettura de Le Baobab fou, Ayo Abiétou Coli sostiene infatti che l’autrice esageri scientemente l’impatto causato dalla partenza della madre, puntualizzando che, più che di eccesso autobiografico, si tratti di una vera e propria autogiustificazione rispetto alle sue discutibili scelte future: «Ken exaggerates both the impact of her mother’s departure and the absence of emotional support from her family on her. […] Ken Bugul’s culture provides her with a means to escape blame for her actions through the ‘ligeey u ndey’ theory that shifts all responsibility to the mother» (Abiétou Coli A. 1999: 64), poiché, come segnalato in nota nel romanzo, nella tradizione islamica senegalese il ligeey u ndey simbolizza «l’aura de chance ou de malchance accompagnant l’enfant selon que sa mère a été, ou non, une bonne épouse» (Bugul K. 2009: 153). Sorprendentemente, la scrittrice, nel corso di un’intervista, sembra dare ragione a questa interpretazione, tanto da affermare: «Le départ de la mère est l’élément fondateur de ma vie et de mon écriture S’il n’y avait pas le départ de la mère, certainement que je n’aurais pas écrit et que je ne serais pas devenue ce que je suis aujourd’hui. Le départ de la mère est un élément déclencheur et un leitmotiv et aussi source d’inspiration, même [si] comme je le dis, j’en ai profité pour justifier des insuffisances existentielles et trouver des excuses.» (Tratto da un’intervista inedita a cura di Tite Lattro gentilmente fornitami dalla stessa Ken Bugul).

 

Tracce di una vita ‘eccessiva’: aspetti tematici

 

D’altra parte, le tematiche affrontate nel testo riflettono specularmente le scelte stilistiche adottate: gli episodi osceni e sconvolgenti che riguardano la separazione dalla madre, la sperimentazione del sesso e delle sue scandalose o nefaste declinazioni (omosessualità, aborto, prostituzione), il ricorso ai paradisi artificiali e la predilezione per un abbigliamento provocante ma alienante confermano infatti Le Baobab fou come un’opera dell’eccesso.

 

In primo luogo, sebbene opportunamente filtrato da un’esacerbazione retorica, appare comunque innegabile che la sua intera esistenza sia indelebilmente segnata dal lacerante trauma infantile della partenza della genitrice, da lei percepito come un crudele abbandono: la piccola Mariètou ha solo cinque anni, infatti, quando sua madre si separa da lei per trasferirsi in un altro villaggio, in modo da permettere ai suoi fratelli di frequentare la scuola. Durante l’assenza materna, è il padre ormai ottantacinquenne a occuparsi della figlia: anziano e poligamo, viene considerato dalla bambina più come un nonno che come un papà, equivoco che la priva, dunque, di entrambe le figure genitoriali. La narratrice ripercorre con una straziante analessi questo momento cruciale della sua vita: «Le jour du départ était arrivé comme les autres jours […]. Je maudirais toute ma vie ce jour qui m’avait emporté ma mère, qui m’avait écrasé l’enfance, qui m’avait réduite à cette petite enfant de cinq ans, seule sur le quai d’une gare alors que le train était parti depuis longtemps» (Bugul K. 2009: 96-98). Come si è visto, la partenza della madre è vissuta come un tradimento imperdonabile a cui la scrittrice, nel romanzo, non esiterà ad attribuire la colpa di tutte le sue sventure a venire, sviluppando una relazione apparentemente a senso unico basata sull’eterno binomio antitetico amore-odio. D’altronde, come ha sottolineato giustamente González Alarcón, «[i]l s’agit du moment-clé dans [s]a vie […]. C’est la frontière qui sépare son passé de son futur. Une frontière infranchissable et à laquelle Ken Bugul se heurtera sans arrêt. Malédiction et châtiment impitoyable qui, comme dans la mythologie, condamne Ken, Danaïde moderne, à recommencer sans cesse un travail sans espoir de le voir aboutir» (González Alarcón I. E. 2011-2012: 147).

 

In secondo luogo, sarà proprio l’apparente indifferenza da parte della sua famiglia biologica a spingere la protagonista a cercare l’amore altrove, assorbita visceralmente da uno straziante desiderio di affetto che proverà a colmare inutilmente con il sesso: più che un appetito carnale, la fanciulla vuole infatti soddisfare il suo lacerante bisogno di calore umano, che però faticherà a trovare. Dopo aver perso squallidamente la verginità con il suo professore di storia, la ragazza si lancerà infatti in relazioni di vario tipo: dalla sua «première idylle en Occident» (Bugul K. 2009: 64) con Louis, un belga con il mito dell’Africa, alla convivenza con Jean Wermer, «dont l’évocation phonétique de son nom est clairement significative»[3] (Díaz Narbona I. 1995: 101), che le farà scoprire la scintillante mondanità borghese, fino alla sperimentazione, mai veramente approfondita né dichiarata, dell’omosessualità[4]. Nonostante parlare di tematiche erotiche in modo così esplicito, per una donna senegalese degli anni Ottanta come Ken Bugul, rappresentasse già di per sé uno scandalo, la scrittrice non ha esitato a trattare altri tabù correlati alla sfera sessuale, che tuttavia, come ha sottolineato Fabiana Fianco, ne Le Baobab fou sono vissuti dall’io narrante come «une auto-condamnation, une mise à mort volontaire de la femme et de son corps» (Fianco F. 2019: 200). La relazione con Louis, in effetti, culmina nella tragica esperienza dell’aborto, portandola a imbattersi nell’insensibilità e nella crudeltà di un ginecologo cinico e razzista, che la esorterà a interrompere la gravidanza: «Je suis absolument contre le mélange. Chaque race doit rester telle. Les mélanges de race font des dégénérés; ce n’est pas du racisme. Je parle scientifiquement. Vous êtes Noire, restez avec les Noirs. Les Blancs entre les Blancs» (Bugul K. 2009: 72).

 

L’autrice-narratrice vive la sua esperienza in Europa nutrendosi del veleno di questi stereotipi, che, esacerbando il suo vuoto affettivo, la spingeranno addirittura a prostituirsi: «Tu plais aux hommes, Ken, tu es une Noire, tu peux te faire une fortune» (Ibid.: 148. Corsivi di Bugul), le viene languidamente suggerito. Ancora una volta, «c’est toujours à une autre instance que Ken attribue la responsabilité de sa vie de prostituée» (Fianco F. 2019: 199), poiché il suo carattere apparentemente troppo debole e influenzabile si lascia facilmente sedurre dall’illusione di essere finalmente accettata e amata, per poi ricavarne inevitabilmente l’ennesima e bruciante sconfitta: «J’étais désirée, je plaisais, la prostitution m’offrait l’instant d’une attention, une reconnaissance autre que celle qui m’identifiait dans le quotidien à ce que je ne voulais pas être. Prostituée au Blanc, je manquais une des faces de l’ambiguïté» (Bugul K. 2009: 151). La protagonista si ritrova così più volte in compagnia di uomini viscidi, rapiti dalla sua bellezza esotica e desiderosi di possederla carnalmente, ma l’esperienza di quei corpi bianchi ed estranei protesi verso di lei è descritta ogni volta come disgustosa e rivoltante, sebbene la ragazza sia incapace di negarsi. Come rifletteva già Frantz Fanon in Peau noire, masques blancs[5] riprendendo la psicanalista Anne Freud (Freud A. 1949: 91-92), «[c]hez le nègre, il y a une exacerbation affective, une rage de se sentir petit, une incapacité à toute communion humaine qui le confinent dans une insularité intolérable» (Fanon F. 2015: 48), che, nel caso specifico di Bugul, la spingono, appunto, fino all’angosciosa sperimentazione della prostituzione.

 

Oltre al sesso e alle sue perverse storpiature, Ken impiega altre strategie per «[s]’abandonner à la recherche de [s]on [s]oi véritable qui était [s]a seule préoccupation» (Bugul K. 2009: 92) e, come il Baudelaire de Les fleurs du mal, anche la giovane donna cerca disperatamente di vincere lo spleen tramite il generoso ricorso ai paradisi artificiali, come si evince dai passi seguenti: «J’avais découvert le LSD et ses angoisses. L’alcool et ses humeurs. L’amour libre. […] Je connaissais énormément de gens et je ne connaissais personne; j’étais surprise de la réaction des individus, j’étais dépassée et je me réfugiais dans la drogue. […] Avec la drogue, je découvris le monde des trafiquants, des boîtes de nuit et de la prostitution, les nuits veillées et les journées de sommeil. Le soleil qui avait baigné vingt ans de ma vie, je ne le voyais que sur un poster immense dans un studio» (Ibid.: 118-119). «La solitude me suivait silencieusement partout. Je la fuyais et elle me poursuivait. Je fumais beaucoup de marijuana et prenais de plus en plus de sirop d’opium, pour chercher vraiment abri, comme sur le quai de la gare, au village, au départ de la mère. Cette solitude que j’avais retrouvée durement, avec le choc d’avoir perdu, ici, mes ancêtres les Gaulois» (Ibid.: 133).

 

Anche l’aspetto esteriore di Ken, infine, è sintomatico del suo malsano desiderio per l’eccesso; una volta giunta in Belgio, il suo atteggiamento, dapprincipio impaurito e insicuro, si fa poco a poco sempre più spavaldo e provocante, così come il suo modo di vestire: «J’essayais de scandaliser la société, dans des robes transparentes aux couleurs vexantes, le crâne rasé, des chapeaux immenses, cherchant à afficher le surréalisme à l’envers, les délires intellectuels, le jeu de la couleur noire: être une femme noire qui plaise à l’homme blanc» (Ibid.: 119). Come racconta la narratrice, «[l]’habillement permettait de me défouler. Un habillement à l’occidentale dans lequel j’étais si mal à l’aise, car je voulais faire prendre à mon corps souple comme les lianes de la brousse, l’attitude constipée qu’exigeait l’accoutrement. Ah, que je fus longtemps mal et seule dans ma peau!» (Ibid.: 200). Ancora una volta, ci troviamo di fronte a un io narrante smarrito e sofferente, che scopre nuovamente la sua delusione di non aver trovato, nella sfrenata sperimentazione dell’eccesso in seno a un territorio e a una cultura estranei, la sua anelata chiave identitaria.

 

Oltre la soglia dell’indicibile: la scrittura dell’eccesso come autoterapia

 

In definitiva, sebbene, come confermato dalla stessa scrittrice, da un punto di vista formale si tratti più di un’autofiction che di un’autobiografia, Le Baobab fou è innegabilmente dominato da una scrittura audacemente autoreferenziale, seppur spesso contaminata da un pathos retorico volto a cercare nel pubblico l’empatia e la comprensione che le sono state rifiutate nella vita reale. Per Bugul, il patto autobiografico[6], benché non sempre oggettivo e rigoroso, ha quindi rappresentato, durante la stesura della sua prima opera, un atto liberatorio, una vera e propria cura dell’anima, come ha chiarito lei stessa: «Faute de pouvoir communiquer avec qui que ce soit, parce que j’étais marginalisée, il ne me restait que l’écriture comme démarche thérapeutique. Pour sortir de ces moments de doute, il fallait trouver un moyen. J’ai eu l’idée d’acheter un cahier et un stylo pour évacuer tout ce vécu intérieur afin de pouvoir me fabriquer un nouveau personnage. Par conséquent, je n’ai pas écrit ‘Le Baobab fou’, j’évacuais! C’était une autothérapie à travers l’écriture» (Ka S. 2018 s.n.).

 

La sua scrittura intimistica ha dunque coinciso, durante la redazione di quest’opera iniziatica, con il superamento di un limite altrimenti invalicabile: parafrasando Bonnefoy, si tratterebbe di una soglia – un «seuil» – ostile, spessa, nodosa, una «porte, scellée», una «phrase, vide» (Bonnefoy Y. 2021: 48), colmabile e raggiungibile, nel caso di Bugul, solo grazie all’esercizio semi-autobiografico. In effetti, come chiarisce Fabio Scotto nell’introduzione alla sua recente traduzione del testo bonnefoyano «scrivere è cercare di varcare una soglia, quella dell’indicibile, scontrarsi a una porta coriacea, ingannevole, chiusa. La parola che non valica quella soglia rimane vuota, il linguaggio prigioniero della sua sterile nerezza. Scrivere è quindi sfidare un ostacolo, forzarlo e per forzarlo, per entrare nel dire, occorre un atto di forza, anche violento, che vinca una resistenza» (Ibid.: 22. Corsivi miei).

 

In modo analogo al poeta francese, la romanziera senegalese sperimenta quindi questa peculiare scrittura autofictionnelle dell’eccesso al fine di restituire alla lettrice e al lettore tutta la cruda straordinarietà dei fatti da lei realmente vissuti (quali l’abbandono materno, l’alienazione identitaria, l’aborto, la prostituzione, la scoperta dei paradisi artificiali), usufruendo, come si è visto, di una retorica votata all’esacerbazione dell’enfasi emozionale e narrativa.

 

Ed è forse proprio il carattere volutamente dissenziente e provocatorio della scrittura buguliana, scaturita da «une démarche d’évacuation thérapeutique» (Le Gros J. 2015 s.n.), ad aver garantito il successo intramontabile del testo: un’opera scomoda, scandalosa, «dissidente» (Ibidem) come la sua autrice, ma ormai letta, studiata e apprezzata in tutto il mondo. Un disincantato «récit de vie» (Bugul K. 2009: quarta di copertina) che, a ormai quarant’anni dalla sua pubblicazione, come constata Carré, «n’a pas pris une ride» (Ibidem) e continua a commuovere e affascinare generazioni e generazioni di lettrici e lettori in tutto il mondo, trasmettendo una lucida e commovente testimonianza dell’umanissimo desiderio di sentirsi finalmente compresi, accettati o, ancor più semplicemente, amati.

 

Bibliografia

 

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Starobinski, Jean 2005, «Les registres de l’excès: Don Giovanni», in Id., Les Enchanteresses, Paris, Seuil.

 

Note

 

[1] Da qui in poi questa dizione sarà sostituita con la sigla s.n.

[2] Come specifica Jean-Marc Moura, «‘post-colonial’ désigne […] le simple fait d’arriver après l’époque coloniale, tandis que ‘postcolonial’ se réfère à toutes les stratégies d’écriture déjouant la vision coloniale» (Moura J.-M. 1999: 4).

[3] La fonetica del nome di questo personaggio sembra infatti voler condurre la protagonista vers [la] mère, cioè ‘verso [la] madre’.

[4] Come si evince chiaramente, ad esempio, da questo breve passo dalla forte carica erotica: «nous étions de nouveau heureuses d’être allongées ensemble. Je lui touchais les seins et, bondissant de rires, elle m’enveloppait dans ses cheveux sentant aussi bon que le sable de Gouye par les nuits de pleine lune» (Bugul K. 2009: 121).

[5] Secondo Abiétou Coli, infatti, «Ken Bugul is in some respect reminiscent of Mayotte Capécia and would certainly have been an interesting case study for Frantz Fanon» (Abiétou Coli A. 1999: 62). Fanon, nel suo saggio, assume il romanzo autobiografico Je suis Martiniquaise (1948) di Mayotte Capécia a guisa di esempio per dimostrare la controversa e nociva attrazione della donna nera per l’uomo bianco come conseguenza del colonialismo, definendolo «un ouvrage au rabais, prônant un comportement malsain» (Fanon F. 2015: 40).

[6] Trattandosi, a conti fatti, di un’autofiction, e non di un’autobiografia ‘pura’, sarebbe forse più opportuno parlare di «pacte oxymoronique» (Jaccomard H. 1993: 81).

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