immagine elaborazione da Socrate du Louvre CCBY SA, di Sting – Louvre Museum ARK ID: 010278931

La figura di Socrate non appartiene al mito ma alla storia, la storia di una vita eroica.

Nel 399 a.C. ad Atene fu celebrato il processo politico più famoso di tutti i tempi. In un clima sociale ed ideologico ancora arroventato dopo la tragica fine della guerra del Pelopponneso e la sanguinosa caduta dei 30 Tiranni, Socrate fu accusato di empietà e corruzione dei giovani e condannato a morte. Il libro di Platone “Apologia di Socrate” tramanda il discorso con cui il filosofo orgogliosamente rivendicò, nel processo, i suoi meriti nei confronti della città e l’ideale di giustizia secondo cui aveva sempre vissuto. Un ideale di cui diede una fulgida prova anche nelle sue ultime ore, rifiutando la fuga che l’amico Critone gli offriva nel dialogo omonimo perché avrebbe rappresentato la sconfessione di tutta una vita tesa alla ricerca del Bene e della Verità.

Socrate nacque ad Atene nel 470 a.C., alla fine delle guerre persiane, con le quali i greci misero fine all’egemonia persiana nel Mediterraneo. Sua madre, Fenarete, era levatrice; suo Padre, Sofronico, era scultore. Le caratteristiche della coppia genitoriale sembrano già dare l’indirizzo vocazionale del filosofo. La madre ostetrica instilla l’arte della maieutica, ovvero l’arte di far partorire la verità. Il padre scultore evoca in Socrate la capacità di scolpire nel blocco della sostanza mentale la forma-pensiero che da vita ai Concetti. Socrate sfugge alla storia perché egli è stato modello dell’interiorità soggettiva viva che non lascia rinchiudere in un sistema poiché non si può avere un “sistema dell’esistenza”. L’esistenza non esiste, l’esistenza è una nozione, ciò che esiste è il soggetto esistente. Se Socrate è il grande sconosciuto della storia, è perché l’esistente resta profondamente inconoscibile e ogni soggettività è una “passione dell’infinito”.
Così Socrate non si lascia inserire in una cronaca; “perché egli ha il merito infinito di essere un pensatore esistente e non quello di essere uno spirito speculativo che dimentica che cosa vuol dire esistere”; per lui non c’è nulla di vero che non sia in rapporto con un soggetto esistente: ecco perché Socrate non cessava mai di ripetere che apprendere è conoscere sè stessi.

Il carattere di Socrate si distingue per l’indomito coraggio e si accompagna ad una pazienza, ad un auto controllo a tutta prova; la sua resistenza alla fatica era celebre. In Socrate non trovano spazio la collera, il livore e l’indignazione. L’abbigliamento di Socrate era sempre modesto, sia perché era povero sia perché amava l’essenziale; mai lo si vide però mostrare di trascurare deliberatamente il suo aspetto come avrebbero fatto i Cinici. Socrate non fu mai un vanitoso né un falso modesto.

L’insegnamento

La semplicità di Socrate si riflette nel suo modo di intrattenersi con i suoi concittadini. Socrate non ha nulla a che fare con un direttore di scuola che dà lezioni a pagamento; la scuola di Socrate è l’Agorà, la pubblica piazza in cui passeggia tra i mercanti, la gente comune, gli aristocratici, parlando con l’uno e interrogando l’altro, senza mai smettere di meditare sui mille problemi della vita quotidiana. Socrate non si stanca mai di ribadire ai suoi ascoltatori di aver ricevuto la missione divina di educare i suoi contemporanei. Questa missione divina è incarnata dal suo “demone” interiore che si manifesta in lui sin da fanciullo ed è come una voce che, allorché si palesa, lo dissuade sempre dal fare quello che è sul punto di fare, e invece non lo incita mai a fare qualcosa.

Il dialogo: il maestro e il discepolo

Socrate non ha vissuto se non nel e per il dialogo, e anche per il contatto con il discepolo dal quale riceve tanto quanto esso riceve da lui. Il discepolo è per il maestro l’occasione per comprendere se stesso, e reciprocamente il maestro è per il discepolo l’occasione per conoscere meglio se stesso: tuttavia il maestro non influenza il discepolo più di quanto questi non voglia da lui. Così potremmo dire che Socrate elude la storia perché la domina, perché egli non è né di ieri né dell’altro ieri, ma di sempre: la sua parola, o meglio la sua presenza, ha attraversato i secoli e un po’ come la parola dell’oracolo di Delfi che non nascondeva né rivelava, bensì indicava. La persona di Socrate è sopravvissuta più di quanto avrebbe fatto un’opera scritta, ed è questo uno dei motivi per cui Socrate può essere paragonato a Gesù Cristo. I testi scritti rischiano di fare degli uomini dei saggi apparenti; essi gli daranno l’occasione di ripetere ciò che gli altri hanno già detto, ma non di operare da soli quel movimento di conversione interiore senza il quale non si dà autentico sapere.

La scrittura renderà gli uomini vani nella misura in cui avrà la pretesa di sostituirsi al dialogo, fuori dal quale non si ha autentica comunicazione. Il dialogo è il vero discorso “vivo ed animato” senza il quale gli uomini non possono conoscere; di tale discorso la scrittura è un “simulacro” ed è in questo che essa ha analogia con la pittura, la quale imita l’esistente. Socrate rifiuta di essere il maestro che insegna; egli non cessa di dire o di ripetere che non sa nulla “so di non sapere”. Nel dialogo socratico c’è soltanto un dialogo interrogativo ed è l’allievo che trova dentro di sé un sapere che credeva di non possedere. L’arte socratica è paragonabile a quella dell’ostetrica: la maieutica è l’arte dell’integrazione, grazie alla quale il maestro induce il discepolo a partorire la verità riposta in lui stesso ma che egli aveva dimenticata. Socrate invita dunque il discepolo ad un rivolgimento su se stesso, ad una “conversione”, guarendolo da tutte quelle distrazioni nelle quali egli non può che perdersi allontanandosi dall’essenziale. Il compito a cui ci vuole sensibilizzare Socrate è quello di rivivere all’inverso dal “fuori” al “dentro” grazie alla reminiscenza che la maieutica del filosofo provoca in noi, il cammino che ci permette di giungere, se non ad una conoscenza totale di noi stessi, almeno ad una riflessione che ci impedirà di mascherare il vero problema dell’uomo con un sapere tecnico che si applica solo a ciò che non è noi stessi. Bisogna puntualizzare che la celebre formula “nosce te ipsum” non si riduce per Socrate ad una massima, che invita all’introspezione o alla descrizione caratterologica di un soggetto che cercasse di percorrere la propria individualità. È soprattutto un invito ad approfondire la condizione umana da cui una conoscenza enciclopedica della natura o delle diverse tecniche del saper fare rischia continuamente di distoglierci. Ecco perché, a differenza della maieutica socratica, la retorica sofista dei “servi del potere” di ieri e di oggi, non si propone di portare l’interlocutore a riscoprire la verità che è in lui ma che ha dimenticato, quanto al contrario di inculcare nell’altro delle idee utilizzabili da colui che cerca il mezzo efficace per imporgliele. Per Socrate il “conosci te stesso” rappresenta il primo gradino che porta alla conoscenza di Dio. L’originalità di Socrate – e ciò che lo rende unico nella storia – è quella di aver congiunto la mente critica, il genio analitico, il metodo dell’ironia, il gusto del libero esame e del dubbio, un senso pratico ammirevole, con una fede religiosa sincera, un entusiasmo ardente e profondo, una tendenza all’estasi, o perlomeno ad una facoltà che ad essa può portare. Il demone è sì ciò che avvicina Socrate al divino, ma egli lo trattiene più che non lo spinga: formula piuttosto divieti che non consigli positivi, lasciando conseguentemente a Socrate tutta la sua libertà e la sua responsabilità per scoprire da se stesso la via da percorrere. Il demone di Socrate testimonia l’immanenza della trascendenza in ogni interiorità. È l’agente che fa dell’uomo il lucido artefice del suo destino; esso diviene portatore di una volontà consapevole ed illuminata da una conoscenza autentica che non può mettersi al servizio del Male senza rinnegare se stessa come volontà. Finché l’uomo serve il Male, si può dire che non ha alcuna conoscenza del Bene. Il malvagio resta, senza saperlo, schiavo dei propri istinti, impulsi e desideri, insomma dell’errore. Ma di questa ignoranza, in cui si trovano coloro che ignorano la Virtù il saggio può subire le terribili conseguenze nella misura in cui può cadere vittima di coloro che non capiscono. Il processo e la condanna di Socrate testimoniano il pericolo che l’ignoranza costituisce per il sapere, che il Male costituisce per la Virtù. Ma si tratta di un pericolo apparente, perché in realtà è il Giusto che esce vittorioso sui suoi carnefici benché ne sia la vittima: il trionfo di Socrate sui suoi giudici risale al giorno della sua esecuzione capitale. Cosciente di questa forza il saggio farà dunque sua la formula che è criticata dai sofisti: “è meglio subire l’ingiustizia che commetterla”. Anche qui un tale atteggiamento è legato ad una trascendenza che affonda nella eternità.

A coloro che lo condannavano a morte, Socrate esprimeva, infine, una verità di straordinaria profondità: uccidendo un uomo, non si uccide, insieme a lui, l’idea che ha creato e portato in atto.

Dopo 2300 anni la parola di Socrate resta una vivida stella nel firmamento della Libertà.

di Pasquale Morla